L’ITALIA DELLE SCORCIATOIE

Cosa c’è di meglio, se vuoi fare un “colpo”, della totale invisibilità? E’ quello che deve aver pensato un solerte impiegato dell’Inps della Toscana, nascosto dall’anonimato d’ufficio. Un passacarte insomma, di quelli che si vedono nei film anni ’60, magari senza le maniche di camicia bianca con le sopramaniche nere (rese celebri dalle commedie di Sordi e Totò) ma pur sempre un moderno piccolo, invisibile ingranaggio del sistema. Capace però di spostare quasi un milione di euro in maniera giudicata truffaldina dai giudici della Corte dei Conti (sentenza 63/2015) dopo che gli uffici di controllo dello stesso Istituito nazionale di previdenza sociale si sono accorti del raggiro.

L’Italia delle scorciatoie, dei furbi, dei soldi facili non conosce sosta. Fa riflettere che è sempre dalle mammelle dello Stato che questi affamati cercano di bere il latte della rendita facile. Come fosse una fonte inesauribile, quale invece non è; come se fosse normale, persino legittimo, approfittare del posto che si ha per lucrare sui fondi pubblici. Uno schiaffo al bene comune, tanto… lo fanno tutti. E il problema, alla fine, è proprio questo: dai dirigenti agli impiegati, finendo con la classe politica, l’esempio è sempre lo stesso. E non è edificante.

Ma come fare a gestire ingenti passaggi di denaro senza destare sospetti? Truccando le matricole delle aziende erogatrici dei Trattamenti di fine rapporto, meglio se con anziani prossimi al decesso, se non già passati a miglior vita. Qualche impostazione modificata nei parametri nel cervellone dell’Inps, et voilà, il gioco è fatto. Magicamente dalle casse dello Stato sparivano i soldi delle ditte e passavano nei conti di persone realmente esistenti (o esistite) 85,269 euro, e poi 64.254, 46,460, 64.703… Un bonifico dietro l’altro, e così via. Persino con i decimali ben conteggiati, perché l’approssimazione in questi casi avrebbe potuto far scoprire l’inghippo.

Ciò che invece non solo era approssimativa, ma addirittura inesistente, era la documentazione cartacea a supporto di quei movimenti telematici: nessuna domanda di prestazione, né fascicolo, né quietanza di pagamento. E ovviamente nessun contratto in essere con le aziende per cui si erogava il Tfr, nessun rapporto di lavoro. Fantasmi che pagavano fantasmi, ma i soldi non erano un frutto dell’immaginazione.

Alla fine la Corte ha deciso per la condanna al risarcimento di 771.773,22 euro, oltre agli interessi, alla rivalutazione di legge e alle spese processuali. Un piccolo trionfo della Giustizia in un corpo – quello della burocrazia italiana – ancora lontano dall’essere guarito dal suo male peggiore: l’infedeltà.