LA MAFIA CAMBIA PELLE

Soldi e guerre vanno a braccetto, specie quando si parla di mafia. C’è sempre una fronda che all’improvviso diventa più potente, o l’improvvisa possibilità di conquistare una piazza di spaccio, con i relativi proventi, dietro l’esplosione di una faida tra cosche. Ma se il meccanismo si inceppa, se le casse dei boss si svuotano, il giogo si stringe attorno agli altri: cittadini onesti, piccoli imprenditori, persino pusher al soldo degli stessi padrini. E si ritorna all’antica, mai defunta, fonte di foraggiamento: il pizzo. L’ultima indagine condotta dalla Dda di Napoli sul clan dei casalesi, ridotto all’osso dall’Antimafia, ha documentato un nuovo boom di questa particolare attività criminale. Vittime delle estorsioni non solo esercenti e commercianti, a cui viene posta l’alternativa tra pagare o subire danni materiali e personali, ma anche spacciatori e raccoglitori di pigne. Persone costrette da uno Stato assente a vivere di espedienti e poi lasciate in mano alla camorra: uno schiaffo alla legalità. Nove persone sono finite in manette su ordine del gip Pietro Carola. Tra queste anche i capi del gruppo: Dionigi Pacifico, 53 anni, imparentato con la famiglia De Falco, e soprattutto Gaetano Cerci, 50 anni, che alcuni anni fa era il punto di riferimento nel lucroso settore dello smaltimento illecito dei rifiuti, una sorta di “vice” legatissimo al “re delle ecomafie” Cipriano Chianese.

La base operativa del gruppo smantellato i giorni scorsi non era a Casal di Principe o il litorale domizio, altro segno del cambiamento dei tempi, ma a San Nicola la Strada, comune limitrofo al capoluogo Caserta. E’ da lì che partivano gli estorsori, meta Castel Volturno sul litorale domizio: il pizzo, che variava tra i 500 e i 1000 euro, veniva richiesto nelle consuete tre scadenze coincidenti con le festività di Natale, Pasqua e Ferragosto. Era di 350 euro invece la quota settimanale che il pusher Fulvio Lama, indagato nell’inchiesta, doveva consegnare agli emissari del clan. Le indagini riguardano fatti abbastanza recenti, fino al Natale 2013. Tra gli imprenditori estorti, nessuno dei quali ha denunciato – troppa la paura – compaiono titolari di caseifici e di bar. Tre degli indagati rispondono anche del reato di furto in relazioni al raid compiuto in un noto negozio di abbigliamento di Caserta in cui furono portati via il registratore di cassa e numerosi capi. Nell’ordinanza firmata dal gip si parla anche di un’attività di “recupero crediti” di alcuni indagati, come quella fatta nei confronti di un militare che aveva contratto debiti di gioco con il gestore di un sala scommesse di San Nicola la Strada.

Ma la crisi economica che colpisce alcuni clan non scalfisce il “Sistema”. E infatti a Napoli si continua a sparare e a uccidere, come dimostra la drammatica escalation di omicidi registrata in questi giorni giorni. L’ultimo rapporto della Dia ha censito oltre cento cosche in Campania, di cui 51 nel solo capoluogo partenopeo. Dall’analisi emerge una polverizzazione dei clan e dei loro centri decisionali. In soldoni: le vecchie, monolitiche, famiglie, sono esplose in mille piccole realtà che ora agiscono senza una linea guida imposta dall’alto. Questo le rende schegge impazzite, mine vaganti pronte a deflagrare in ogni momento facendo vittime anche tra i cittadini innocenti.

Anche quando è in crisi economica e strutturale, dunque, la malavita continua a fare paura. Vale in Italia come nel resto del mondo, in cui si annidano organizzazioni altrettanto letali. E’ il caso del Giappone, dove le autorità tengono sotto controllo la temibile “yakuza”, sul punto di scatenare una vera e propria guerra di mafia. Scenario con cui il Paese nipponico raramente ha dovuto fare i conti, col rischio di trovarsi impreparato. Qualche giorno fa in una spettacolare azione della polizia di Kobe, il quartier generale dello Yamaken-gumi (clan Yamaken), il principale gruppo uscito dal grande conglomerato mafioso Yamaguchi-gumi, è stato perquisito a fondo. Gli agenti, oltre a indagare su un caso di traffico di carte di credito, stavano cercando informazioni e prove sulla nuova organizzazione – il Kobe Yamaguchi-gumi – che è nata dalla scissione dalla casa madre, con a capo il boss di Yamaken, Kunio Inoue. La scissione è stata originata dall’espulsione di 13 boss su 72 a fine agosto. Il provvedimento va inquadrato in una fase di crisi del grande gruppo criminale – i giapponesi preferiscono usare la parola “boryokudan” piuttosto che “yakuza” – dovuta sia all’andamento fiacco dell’economia nipponica in generale – in ogni ganglio della quale la mafia è stata capace d’infiltrarsi – sia a una più decisa azione antimafia da parte del governo di Tokyo e a livello internazionale.

A incidere sulla scissione, inoltre, ci sarebbe stato anche il sospetto che Shinobu Tsukasa – il 73enne capo dei capi dello Yamaguchi – voglia rafforzare il suo clan di provenienza, il Kodo-kai di Nagoya, a spese di altri. Questo ha portato lo Yamaken, assieme al Takumi-gumi di Osaka e al Kyoyu-kai di Awaji a unirsi nella nuova organizzazione la quale dovrebbe avere qualcosa come 3mila affiliati in tutto, rispetto agli oltre 23mila che conta lo Yamaguchi e i quasi 60mila che compongono la forza complessiva di tutti i gruppi “yakuza” ufficialmente riconosciuti. I gruppi “boryokudan” nascono prevalentemente dalla gestione del gioco d’azzardo, cui devono ancora oggi una parte della loro ricchezza, al quale si sono affiancati i business legali alla prostituzione al narcotraffico e all’edilizia. Il tutto si svolge, anche lì, con la connivenza di alcuni uomini politici. E proprio l’enfasi posta sugli affari rende le guerre tra cosche estremamente rare. Una metamorfosi inattesa, che non fa dormire sonni tranquilli, a Tokyo come a Napoli. In fondo è proprio quando muta pelle che il serpente diventa più pericoloso.