IL GIRO D’ITALIA E L’ALTRO LATO DEL CICLISMO

Questa è l’edizione numero 100 ma, in realtà, potrebbe essere la 108. Se resta qualche spazio vuoto nell’albo d’oro, il motivo è esclusivamente bellico. Sì, perché quando il Giro d’Italia debuttò, in quel lontano 1909, le interruzioni 1915-18 e 1941-45 non potevano ancora essere preventivate. E allora, con qualche anno di ritardo, ecco giungere la cifra tonda di una competizione che, nonostante tutto, continua a mantenere inalterato il suo alone leggendario: il Giro d’Italia è e resta la corsa per eccellenza, magari senza quella magia che accompagnò l’epoca d’oro del ciclismo, gli anni delle grandi sfide, dei duelli, dell’identificazione culturale di un Paese nei propri corridori, su e giù tra le vette impervie del Nord Italia o fra i paesaggi dolci, caldi e rurali del Sud. Non è il Giro di Coppi e Bartali, di Merckx e Gimondi, ma nemmeno quello di Saronni e Moser, di Indurain, di Pantani. E non perché sia la corsa rosa a essere cambiata: chi muta velocemente è la società che vi si identifica che, inevitabilmente, non è più quella dei primi del ‘900, così come non è la stessa di venti o trent’anni fa.

Una vita in bicicletta

Eppure, il Giro richiama ancora e, dopo 100 corse per la Penisola, la nuova gara a tappe al via dalla Sardegna, può essere un’occasione per ragionare non tanto sulla competizione in sé ma sul mondo di quello sport meraviglioso, difficile e formativo che è il ciclismo. E, certamente, Angelo Bertucci, presidente del Gruppo sportivo (Gs) che porta il nome della sua famiglia, di questa disciplina se ne intende: “Il Gs è nato nel 2005 per amore di mio padre, che avevo perso qualche anno prima, e per onorare un po’ la tradizione familiare del ciclismo”. In sella alla sua bici da quarant’anni – proveniente, appunto, da una famiglia di ciclisti per vocazione -, la sua esperienza sulle due ruote è grande come la sua passione che, ora, cerca di trasmettere agli altri, assieme a tutti i valori propri di questo sport. Ed è a lui che ci siamo rivolti per avere una panoramica non solo sul centesimo Giro d’Italia ma sull’universo della bicicletta lontano dai riflettori eppure, allo stesso modo, fatto di sudore e passione, di amicizia e sportività.

Iniziamo proprio dal Giro d’Italia: cosa rappresenta, per un ciclista, essere arrivati alla centesima edizione? E’ una corsa speciale?

“Il Giro continua a essere la massima espressione del ciclismo e quindi il centenario ci fa ragionare sulle nostre origini: da dove veniamo, da quanti anni il ciclismo ha un certo ruolo nello sport del nostro Paese. E questo pensando a quanti campioni hanno vestito la maglia rosa portando in alto i nostri colori, come italiani e come appassionati di ciclismo. Ma anche i sogni che ci hanno fatto fare, le passioni, tutte le emozioni legate a questo sport che io ritengo bellissimo. Aver raggiunto 100 edizioni del Giro d’Italia, per chi è amante della disciplina, rappresenta una pietra miliare del panorama ciclistico non solo italiano ma anche mondiale, perché il Giro in fondo è un evento di grande spessore per questo sport”.

Dopo 100 edizioni possiamo dire che il Giro si è evoluto. Da ciclista, quali differenze si possono notare fra le corse passate e quelle odierne?

“Sotto il punto di vista logistico, mi sembra che negli ultimi anni si sia cercato di legare il Giro alle altre nazioni europee, andando a fare dei piccoli tratti o delle partenze anche in territorio extra nazionale, come apertura nei confronti degli altri Paesi. Il Giro d’Italia ha avuto secondo me una metamorfosi, dovuta anche al ricco calendario agonistico che si ha in questo momento: una volta c’erano meno gare, quindi forse il Giro attirava di più le attenzioni. Ora, con il nuovo calendario – la Vuelta, il Tour, il campionato del mondo e tutte le corse minori – a volte vediamo che la qualità dei partecipanti forse non è il top. Sembra un pochino un appuntamento che man mano ha perso di appeal per molti campionissimi. Il Tour de France, parlando di una gara a tappe, è forse la massima ambizione di quegli atleti che sono ben preparati per questo tipo di disciplina. Anche se, ovviamente, ha sempre il suo fascino, la sua bellezza, per i territori che tocca, per le tappe. Andando a fare il confronto con i giri d’Italia dei tempi passati, di Coppi e Bartali, di altre epoche, risulta forse meno maestoso o rinomato”.

Dal punto di vista tecnico, invece, a giudizio di molti ciclisti risulta una corsa molto impegnativa, forse la più dura…

“Assolutamente. Per come viene strutturata, per le cronometro, per le tappa di montagna, che sono molto tecniche, le discese, ecc., il tasso tecnico rimane sempre di altissimo livello. Nulla da invidiare al Tour de France: forse l’egemonia del Tour degli ultimi anni l’ha portata a essere la corsa a tappe per eccellenza. E, probabilmente, è dovuta anche al metodo organizzativo, al saper vendere il prodotto”.

Il pubblico come vive l’evento del Giro? La passione può essere considerata la stessa di un tempo o anche quella è cambiata, parlando anche del ciclismo come sport?

“Da bambino, ricordo che entrando in un bar c’era la radio accesa e si sentiva la tappa. Forse proprio per questa inflazione dello sport, anche dovuto al fatto che la tv trasmette per la maggior parte calcio, il pubblico è un pochino calato, come è sceso anche il numero di agonisti. Quando ero bambino io, a 10 anni, c’erano gare a cui si partecipava in 50-60, ora ne vedi alcune di 10. Si sta cercando di sopperire a quelle che, a volte, possono essere carenze delle Federazioni con l’intervento dei privati. Si stanno creando scuole di ciclismo, soprattutto a livello di mountain bike perché la gestione di questa disciplina risulta più sicura. Fare squadra di ciclismo su strada per bambini, con i tempi che corrono, può essere più complicato. I genitori non hanno più quel tempo e quella disponibilità di seguire a tempo pieno un ragazzo. L’attività di mountain bike, invece, sta riprendendo vigore. La Federazione ciclistica italiana organizza corsi per insegnanti e, pian piano, la disciplina sta decollando, sperando che sia un bacino utile per pescare e specializzare ragazzi anche in altre categorie”.

A proposito dei ragazzi: come rispondono a questa attività? La mountain bike piace o l’ambizione è sempre quella di correre su strada?

“Da quello che vedo, la passione per la bici è sempre forte. E, per emulazione, visto che in tv quello che si vede è il ciclismo su strada, si tende di più a vedere lì il proprio futuro. Però con la mountain bike, nel prato, attraverso attività ludiche, trovano forme di divertimento ‘sicuro’, in zone limitate dove hanno la possibilità di andare in bicicletta perché non è facile, soprattutto in alcune realtà, legate al traffico”.

Il vostro obiettivo, dunque, è insegnare innanzitutto ai giovani a divertirsi in modo sicuro, prima ancora che scoprire eventuali talenti…

“I ragazzi in tenera età non devono essere stressati dal punto di vista agonistico. Altrimenti diventa un peso psicologico: con la pubertà e l’adolescenza, aver vissuto lo sport come ‘un doverlo fare’, può essere un’arma a doppio taglio. Quando cominciano i tanti impegni, si tende poi a perdere l’atleta. Secondo me, il fatto di avere un approccio multidisciplinare, formativo, far apprezzare lo sport, ci porta ad avere una possibilità di specializzare l’atleta in una disciplina che gli è congegnale. Ci può essere un ragazzo che, con un approccio sulla strada, è un atleta medio, mentre specializzato in pista diventa un atleta di livello. Questo poi si capirà con la crescita: chi ha queste competenze individua la categoria più indicata”.

Com’è invece il mondo del ciclismo amatoriale e dilettantistico?

“Il gruppo che io coordino è amatoriale: c’è l’obiettivo di avvicinare le persone al ciclismo e di formarle quanto più possibile, tenendo conto degli impegni. Nasce per promuovere il ciclismo e la socializzazione attraverso questo sport. E c’è anche una specializzazione: i nostri atleti man mano crescono in base alle esperienze che vengono trasmesse in modo bilaterale, magari attraverso gli atleti più esperti. Sotto una guida, che può essere tecnica o generalizzata, questo è l’obiettivo. E, in questa cornice, sta prendendo sempre più vita il ciclismo femminile che, nel momento attuale, è una bella realtà. Le donne in bicicletta hanno portato una ventata di colore e devo dire che fra queste ragazze ci sono anche atlete tenaci e dotate di capacità. E riescono a ottenere anche buone prestazioni. Il movimento ciclistico femminile è veramente in espansione, sia a livello amatoriale che dilettantistico. Anche in televisione si vedono sempre più delle belle competizioni”.

C’è quindi una crescita delle persone che cominciano ad apprezzare questo sport come socializzazione, per sentirsi bene con se stessi ma anche con gli altri.

“Sì, l’altro aspetto che sta avvicinando le persone al ciclismo è il contatto con la natura, la possibilità di spostarsi negli spazi verdi attraverso l’utilizzo della bicicletta. Le persone che, entrando in un gruppo, dicono “quanti chilometri facciamo oggi?”, all’inizio ritengono l’impresa impossibile: riuscirci dà un senso di soddisfazione e di libertà, perché si capisce che, attraverso sacrifici, metodologie e allenamenti, si possono ottenere risultati e nulla è precluso, tanto è vero che, man mano, le percorrenze si allungano. Sta prendendo sempre più piede, ad esempio, il fenomeno delle randonée: non è una competizione legata a un risultato di classifica ma all’essere riusciti a fare un certo percorso in un certo tempo e, quindi, aver raggiunto un determinato standard di allenamento. Poi, all’interno di questo, avvengono anche piccole premiazioni. L’obiettivo principale, però, è riuscire a fare i 200 chilometri in un dato tempo, con le varie pause e i vari ristori, conferendo questa sensazione di miglioramento, di libertà. E poi, lo stesso contatto diretto con la natura dà delle sensazioni”.

I valori che si trasmettono con il ciclismo, dunque, sono ancora vivi e riescono a far presa su persone di tutte le età…

“Sì, è veramente un ciclismo che abbraccia tutte le età: le varie generazioni le trovi in bicicletta, da un bambino di 6-7 anni che si appassiona e poi fa le prime gare, alle persone oltre i settant’anni, che vanno in bicicletta e lo fanno con spirito, mantenendosi in forma e socializzando. Si vedono scene bellissime in cui, dopo aver fatto una faticaccia, si prende il caffè tutti insieme, si chiacchiera, poi si torna a casa”.

Questo è perciò anche un modo per far capire che il ciclismo sa scacciare le ombre del doping più volte riscontrate nel professionismo, continuando a essere uno sport che le persone possono sentire proprio, riconoscendosi nei suoi valori…

“Io parlerei proprio di due ciclismi: innanzitutto quello agonistico, dove il mondo del doping è un grande ostacolo. Da genitore dico che, se mio figlio deve fare sport e poi vedere che tanti di quegli atleti risultati vincenti sono nel tempo, purtroppo, incappati in controlli positivi all’antidoping, ecco, questo dà un’immagine di un ambiente molto pericoloso, pensando alla salute. Ed è un grande freno per quanto riguarda il discorso del professionismo. Dall’altra parte, però, c’è un ciclismo che secondo me è florido, perché persone che vanno in bicicletta se ne vedono tantissime ed è un fattore molto contagioso. E’ fra amici che ci si consiglia, trasmettendo tutti quegli aspetti positivi che sono sì il miglioramento dal punto di vista atletico e a livello di prestazione ma, soprattutto, il riuscire a fare sport in maniera sociale. Noi puntiamo molto su questo: che le persone facciano sport trovando un terreno fertile per far nascere amicizie, confidenze, consigli, per far sì che non sia solo ciclismo ma che si crei un legame che porti a trovare anche le energie per fare qualcosa in più, per andare a cercare quella vetta, sapendo che il compagno non ti lascerebbe solo in caso di difficoltà. Questo aspetto, secondo me, dovrebbe essere pubblicizzato da tutte le associazioni sportive e dovrebbe essere un obiettivo, perché il ciclismo del popolo, quello non agonistico, deve proliferare proprio su queste emozioni: migliorare ma in armonia e in amicizia. Cosa diversa dall’agonismo che è molto più ‘cinico’. Se sono agonista, nel mio allenamento raramente c’è qualcun altro o, se c’è, è al mio stesso livello perché devo cercare di massimizzare la mia prestazione: ho le mie tabelle e diventa un allenamento più solitario, ristretto a pochi. Il ciclismo amatoriale, invece, o non esageratamente agonistico, porta a questo tipo di rapporto umano fra le persone”.

Un’ultima domanda: da ciclista, un pronostico per questo Giro100…

“In realtà, preso dal bellissimo mondo di questo tipo di ciclismo, non saprei dare un giudizio sui partecipanti, quindi non vorrei sbilanciarmi su possibili pronostici!”.