HONG KONG, LA PROTESTA E LA LIBERTA’

[cml_media_alt id='8267']wong[/cml_media_alt]Joshua Wong si affida a Twitter per dire che sta bene dopo due giorni passati dietro le sbarre. Ci sono posti nel mondo in cui puoi diventare un simbolo prima del tempo, e i suoi 17 anni sono lì a dimostrarlo. Racconta che, durante gli scontri con gli agenti, ha perso gli occhiali e le scarpe. Il suo volto è quello di un imberbe adolescente che “puzza ancora di latte e dovrebbe starsene a casa a studiare invece di pensare a cambiare il pianeta”. Ma Joshua non è nato per fare cose ordinarie e, soprattutto, vive in un Paese in cui la democrazia è nascosta da una coltre di nebbia, simile a quella prodotta dai lacrimogeni che in questi giorni ne coprono le strade. Per questo è sceso in piazza, insieme ad altri studenti, per chiedere a Pechino una maggiore autodeterminazione per Hong Kong.

La sua storia collega due generazioni: quella dei sogni e quella della cruda realtà. Quando nacque, nel 1997, l’ex colonia si svegliava dal dominio britannico e tornava tra le braccia della Cina. Un abbraccio fin troppo stretto, quasi soffocante, dirà di lì a poco il decorso del tempo. Ma, a quell’epoca, nessuno poteva immaginarlo. Le promesse di autonomia e democrazia trasformarono quei giorni nel momento del riscatto e della riconciliazione per la grande città asiatica.

Sembra passato un secolo da allora. L’economia è cresciuta, fino a rendere Hong Kong una delle piazze finanziarie più importanti del globo. Affari da milioni di dollari transitano nella Borsa valori locale e grattacieli ultramoderni si arrampicano, quasi a voler sfidare il sole. Uno scenario fantascientifico che, tuttavia, difetta del minimo indispensabile alla popolazione per poter condurre una vita libera: la possibilità di eleggere i propri rappresentanti. Il regime cinese aveva garantito ad Hong Kong che nel 2017 avrebbe potuto scegliere a suffragio universale il suo chief executive. Impegno che, se mantenuto, avrebbe completato il processo di indipendenza della regione. Il dietrofront di Pechino è storia dell’ultimo periodo, così come la mobilitazione dei milioni di studenti che compongono “Occupy Central with Love and Peace”.

Una rimostranza spontanea, lanciata lo scorso gennaio da Benny Tai- Yiu ting, un docente di diritto, con un articolo pubblicato sull’Hong Kong Economic Journal. Le richieste sono chiare: dare seguito a quanto promesso nel 1997. Ma da Pechino la risposta continua ad essere negativa. “Le proteste dei manifestanti sono illegali” ha sbottato ieri il governo cinese, che sulla scelta del governatore vuole continuare a dire la sua. E mentre arrivava la nuova chiusura migliaia di ombrelli si aprivano nelle strade della metropoli per proteggere il viso dei giovani dagli spray urticanti al peperoncino e persino da proiettili di gomma sparati dalle forze dell’ordine per disperdere la folla. Un tentativo vano, perché tanto più il regime stringe la sua morsa, tanto più cresce la rabbia delle nuove e delle vecchie generazioni.

Ai propositi di protesta pacifica e non violenta del movimento, dunque, lo Stato ha deciso di rispondere con la forza della repressione. Non sarà un’altra piazza Tienanmen ma il volto della Cina, quando si parla di diritti, resta arcigno. E una moltitudine di Joshua Wong continua a lottare, dietro volti da bambino che gridano per la libertà. Uno schiaffo a tutti quei ragazzi che, anche in Italia, non sanno più combattere per cambiare la propria condizione.