ETERNIT, LA GIUSTIZIA CHE NON C’E’

Da una sentenza storica del 2012 si è passati per una pronuncia di prescrizione e poi ad un secondo processo, questa volta per omicidio volontario, ora derubricato in omicidio colposo, a rischio prescrizione, tanto più che il processo è stato spacchettato e in parte trasferito in altre tre Procure. Questa, in sintesi, la cronaca del procedimento giudiziario che vede al banco degli imputati l’imprenditore svizzero Stephan Schmidheiny, sotto processo a Torino per la morte di 258 persone per inalazione di fibre di amianto e che lavoravano nella sua ex multinazionale.

Una vicenda giudiziaria iniziata nel 2001 che solo 4 anni fa sembrava aver scritto una pagina importante nei procedimenti per disastro ambientale, in grado da rappresentare un precedente, ora potrebbe chiudersi con un nulla di fatto e, di conseguenza, vedere vanificati anni di indagini, processi, interrogatori e perizie mentre la lista dei decessi per mesotelioma pleurico continua ad allungarsi.

La svolta nel processo arriva il 3 giugno 2013: Schmidheiny è condannato in appello a Torino a 18 anni di carcere. Un anno dopo la Cassazione dichiara che il disastro ambientale è prescritto mentre la procura inizia a procedere contro il magnate per omicidio volontario. Nel 2015 viene chiesto il rinvio a giudizio per l’ex manager Eternit per 258 casi di morte e il tribunale di Torino interpella la Corte Costituzionale sul principio in base al quale non si può essere giudicati due volte per lo stesso reato. Un anno dopo arriva la decisione della Consulta secondo la quale il processo può andare avanti. Si riparte dal gup. Durante l’udienza che si è svolta a Torino martedì 29 novembre, il giudice, Federica Bompieri, pur rinviando a giudizio il magnate Schmidheiny, ha stabilito il cambio di accusa da omicidio volontario a omicidio colposo plurimo aggravato. Ha quindi deliberato che l’ex proprietario della multinazionale possa essere giudicato di nuovo. Ha inoltre decretato la prescrizione di tre casi su 258 e la divisione dei singoli casi tra le Procure competenti per territorio, vale a dire: 243 trasmessi a Vercelli (per le vittime legate allo stabilimento Eternit di Casale Monferrato), otto a Napoli (stabilimento Bagnoli), due a Reggio Emilia (Rubiera) e due a Torino (Cavagnolo) dove la causa comincerà il 14 giugno 2017.

La decisione del gup è stata accolta con amarezza dall’avvocato Ezio Bonanni, presidente dell’Osservatorio Nazionale Amianto e legale di parte civile dei parenti di alcune vittime. “È la conferma che il sistema giudiziario italiano è incapace di rendere giustizia in generale e di farlo in tempi brevi – afferma – Le indagini sono cominciate in ritardo, quando, secondo la Corte di Cassazione, il reato per disastro ambientale era già prescritto. Il procuratore Guariniello non accolse la mia richiesta di contestare nel primo processo Eternit il reato di omicidio. Se lo avesse fatto, come riconosciuto dal Procuratore Generale della Cassazione, la sentenza sarebbe stata confermata perché i reati di omicidio non erano ancora prescritti”.

Per il legale “lo ‘spacchettamento’ del processo in tanti tronconi va contro i principi di economia processuale. Se l’imputato fosse condannato una volta, per gli altri procedimenti si dovrebbe applicare solo l’aggravante della continuazione. Bisogna essere realisti: non è semplice battersi contro veri e propri colossi come l’Eternit. La lotta è impari, questa vicenda ricorda Davide contro Golia, è un gigante economico contro dei cittadini che vengono schiacciati come mosche”. L’avvocato procederà con la richiesta alla Procura della Repubblica di Torino di impugnare la determinazione del gup “il quale non rappresenta un ulteriore grado di giudizio – conclude Bonanni – ma doveva solo valutare se le accuse in dibattimento erano sostenibili”.

“Deluso dalla giustizia” si dichiara anche Pasquale Falco, Coordinatore del Comitato “Vittime Eternit” dell’Osservatorio Nazionale Amianto. Suo padre Luigi e suo nonno hanno lavorato entrambi nello stabilimento Eternit di Bagnoli. Entrambi sono morti per mesotelioma. Il padre è deceduto nel febbraio 2012, dodici giorni dopo la prima sentenza di condanna. “L’unica cosa che mi verrebbe da fare in questo momento – afferma – sarebbe fuggire dall’Italia. Non esiste una vera giustizia ed inoltre mi sento solo. Sono stato l’unico a sporgere denuncia. Da ragazzo mi hanno insegnato il calore del Sud, che se a Napoli una persona aveva dei problemi non veniva lasciata sola. Forse era vero un tempo, oggi non è più così. La gente ha paura ad esporsi, teme delle ritorsioni. Combatto questa battaglia da solo”. “Dai nuovi processi che partiranno – conclude – non mi aspetto molto, faranno cadere in prescrizione anche il caso di mio padre”.