DROGHE LEGGERE, VITA PESANTE

Guido per le colline tra Rimini e Cesena per incontrare i ragazzi alla fine del percorso della comunità terapeutica. Penso ai cuchèl, come li chiamiamo a Rimini, uccelli marini che stanno accovacciati con la testa sulle spalle. La cosa strana è che i chucèl poi, aperte le ali a veleggiare, diventano tutta un’altra cosa, perché per il resto d’Italia sono i gabbiani, simbolo di libertà e indipendenza.

Lo incontro a Balignano. “Sapevo cos’è la droga – racconta Ugo – un mio cugino è morto di overdose, un altro di Aids. Un amico mi ha invitato a casa, faceva uso di eroina; per me era quella la droga, ero prevenuto. Eppure quando mi ha chiesto se volevo provare ho detto sì senza obiezioni”. E’ il punto più sorprendente della conversazione. Prima di questo “avevo fatto tutta la scaletta, come diciamo noi”. Nel suo passaggio dalle medie alle superiori, per inserirsi in un certo gruppo, Ugo ha provato lo spinello. “Una droga leggera” dico, ma non è d’accordo. “No, per me a livello mentale brucia più di eroina e cocaina, che agiscono più sul fisico, non ci sono droghe leggere”. Poi esistono quelle sintetiche, in discoteca: “Ti fanno diventare un’altra persona, ti senti super, ti danno euforia”.

Il gradino successivo è la cocaina: “Lavoravo da cuoco, un lavoro duro. Così ho iniziato a tirarmi di coca per non mostrarmi debole. Prima una o due volte alla settimana, poi tutti i giorni”. Quindi l’eroina, sempre per paura di essere solo, ma a quel punto gli amici cominciano a diradarsi. Non riesce a stare più di qualche ora senza buco. Viene licenziato, un furto lo porta in cella. Lì la prima scelta: chiedere i domiciliari in comunità, per darsi un po’ di tempo. Ma la decisione vera arriva il giorno del fine pena: è libero di restare e sceglie di farlo, per andare fino in fondo, per riconciliarsi con la mamma troppo apprensiva e il papà con cui non riusciva a fare discorsi veri. “Non ho mai avuto un rapporto così bello con i miei, ora sto bene con loro e con me stesso. Però ho paura di incontrare una compagnia dove semplicemente si beva troppo”.

A Bagnolo incontro Pio, che mi racconta della sua famiglia, del padre troppo duro e scostante. “Per lui facevo solo cose sbagliate, mi picchiava per tutto. Sono cresciuto nell’insicurezza”. Ormai Pio è adulto, e ha tre figli: “Non vorrei ripetere con loro gli stessi errori”. Anche lui ha provato un po’ di tutto, per imitare i più grandi della compagnia, per avere le ragazze. “Una vita dettata dagli altri, che ho voluto riprendere nelle mie mani”. Un matrimonio che va all’aria, entra a San Patrignano. “Sono uscito per stare con una ragazza, senza fare un vero percorso”. Poi incontra una donna con la quale ha un figlio, ma il bere devasta il rapporto. La coca gli dà paranoie. Prova la Comunità di Sant’Aquilina della Papa Giovanni XXIII per un anno, esce e ricade. Arrestato per rapina, in carcere la sua compagna lo incontra solo due volte e solo per portargli il bambino: “Ho sempre distrutto quello che avevo creato”. Così accetta i domiciliari a Balignano: “L’ho fatto per i miei figli e la mia compagna. Qui ho riconosciuto i miei limiti e messo a posto le cose importanti”.

Irina invece era quella che avrebbe potuto essere etichettata come “la ragazza del boss”. Chi usa nello scrivere luoghi comuni e frasi fatte, dovrebbe incontrarla. Racconta di una famiglia russa con mille difficoltà: madre alcolizzata, nonna paralitica, una figlia. Accetta l’invito di un’amica a venire in Italia: “Si guadagna bene nei night club”. Ma non parla volentieri di quel club, che definisce “sporco”. “Facevo avanti e indietro con la Russia. Stavo con il mio primo ragazzo, lo amavo molto, era finito in carcere, era cambiato e litigavamo spesso. Però ero riuscita a farmi promettere di sposarmi. Così sono venuta in Italia con mia figlia per trovare i soldi per un bel matrimonio”. Ma di lì a poco il ragazzo muore. Qualche giorno dopo è a casa di un’amica, lì si tira di coca. Lei la invita a sniffare una striscia, questa però è grigia, non è bianca. La polverina ha l’effetto di toglierla da quel dolore che la schiacciava. Così chiede, scopre che si trattava di eroina, ci riprova.

Per due volte torna in Russia per curarsi. “Ho una figlia, era come una doppia vita”, ma le cure le fanno solo superare l’astinenza e ci ricade. Finché entra nel giro dello spaccio, va a vivere con il suo spacciatore. Viene arrestata: “Mia figlia mi è venuta a cercare in carcere dopo una settimana. Ero intontita di psicofarmaci, ho chiesto di smetterli per entrare in Comunità, volevo uscirne per riconciliarmi con lei. E adesso sono qui”. Un altro cammino che parte, un’altra storia dove il buio lascia spazio alla luce. Uno schiaffo al pessimismo che vede la droga come una strada senza uscita. “Una via difficile quella del recupero, certo, ma è bello averla iniziata”.

Riccardo Ghinelli
(mensile “Sempre”)