DISASTRI NATURALI, L’ESPERTO: “ECCO PERCHE’ L’ITALIA SI SBRICIOLA”

Italia, Paese delle emergenze, dove la prevenzione è troppo spesso relegata ai margini. Le conseguenze sono i fatti di cronaca e la conta dei morti. Da L’Aquila ad Amatrice, da Genova a Livorno. La natura colpisce dove l’amministrazione latita, provocando più danni di quanti se ne dovrebbero verificare in uno Stato moderno. Colpa di un sistema lento e farraginoso, incapace di far fronte ai fenomeni naturali, di prendere decisioni, anche per via del microcosmo di competenze che, tema per tema, si è andato consolidando, prolungando oltremodo i tempi delle decisioni amministrative e lasciando i cittadini in balia degli eventi. Così, almeno, la pensa Roberto Troncarelli, presidente dell’Ordine dei Geologi del Lazio, sentito da In Terris dopo l’alluvione che ha colpito il capoluogo labronico, provocando 8 vittime.

Troncarelli, l’alluvione di Livorno è legata al caso del Rio Maggiore, il cui tratto finale era stato tombato nel 1987. Com’è possibile che le 4 casse d’espansione, realizzate di recente proprio per prevenire le esondazioni, non abbiano retto?
“Il progetto della casse è del 2009 mentre la realizzazione è avvenuta nel 2015. Prima di costruire le casse di espansione bisogna avere un’idea ben precisa, relativamente al bacino interessato, della quantità di pioggia che cade, di quella che evapora e di quella che si può aspettare in un certo periodo. Fatto questo calcolo queste strutture vengono progettate in base alla mole di acqua da smaltire nella peggiore delle ipotesi. Se però trascorre troppo tempo dalla progettazione alla realizzazione è possibile che il contesto cambi. Nello specifico il territorio è stato cementificato e, quindi, impermeabilizzato. In circostanze come queste il progetto iniziale dovrebbe essere adattato alle nuove necessità. Cosa che a Livorno non è avvenuta”.

Negli ultimi anni i fenomeni temporaleschi sono diventati sempre più intensi. Questo implica nuove scelte in fase di progettazione?
“E’ mutata la distribuzione dell’acqua nel corso dell’anno. Mentre un tempo la stessa veniva spalmata in un periodo più ampio, oggi lunghe fase di siccità si alternano a eventi improvvisi in cui, nell’arco di poche ore, viene scaricata la stessa quantità di acqua che magari una volta veniva distribuita in un mese. Questo è un fatto di cui si dovrebbe tener conto in fase di progettazione. C’è poi un altro aspetto che spesso viene sottovalutato. Una volta realizzata, la cassa di espansione dovrà essere continuamente adeguata e manutenuta per adattarsi alle nuove esigenze, altrimenti rischia di diventare troppo piccola o di rompersi”.

Si è parlato 12 mila chilometri di corsi d’acqua interrati in tutta Italia. Dobbiamo aspettarci altri eventi simili a quelli di Livorno?
“Non possiamo escluderli. Le via d’acqua urbane andrebbero riviste. Pensiamo al Bisagno di Genova, completamente incondottato, con una sezione di deflusso che ad oggi è del tutto insufficiente. Questo perché, negli anni, la città si è estesa a monte, impermeabilizzando grandi settori di campagna che prima assorbivano. Con la conseguenza che oggi nel Bisagno, quando piove, arrivano 7 metri cubi d’acqua al secondo anziché 5. E lo scatolare di deflusso, che passa sotto la stazione di Brignole e lo stadio di Marassi, non è più adeguato. Dopo le ultime alluvioni si sta intervenendo in tal senso ma queste cose bisognerebbe farle prima, non dopo. E la stessa cosa andrebbe fatta in tutti i torrenti d’Italia che presentano delle sezioni incondottate”.

Perché siamo sempre il Paese delle emergenze?
“L’Italia è ha un territorio complicato. E’ geologicamente giovane, il che significa che ha al suo interno ancora processi in atto. Una dinamica che riguarda tutto il territorio nazionale, a parte la Sardegna. C’è un Appennino in crescita, una catena alpina di recentissima formazione oltre a notevoli criticità da un punto di vista sismico e vulcanico. Dobbiamo accettare questi fattori, evitando di sfidare la natura, come avvenuto, ad esempio, nel caso dell’hotel Rigopiano, costruito al termine di un canale di sbocco e poi travolto da una slavina. C’è poi un altro aspetto da tenere in considerazione…”

Quale?
“Quello che attiene al modo burocratico, procedurale e amministrativo con cui si affrontano queste problematiche naturali, destinate a diventare catastrofi se la programmazione dello sviluppo del territorio non viene fatta secondo criteri di sostenibilità. E qui entriamo nel campo dell’organizzazione istituzionale che negli 30/40 anni si è complicata notevolmente”.

In che modo?
“Ad esempio con la creazione realtà amministrative che hanno finito col sovrapporsi ad altre e, paradossalmente, anziché perseguire obiettivi di maggior tutela del territorio hanno sortito l’effetto contrario. Negli anni 50 e 60 c’erano solo due enti che si occupavano di questi temi: il comune e la provincia. Ciò rendeva molto più chiaro il quadro delle competenze e delle responsabilità in caso di danni derivanti da un’errata attività di pianificazione. Oggi è tutto più complicato. Possiamo fare l’esempio delle gestione di fiumi, dove, oltre alla regione e alla provincia, intervengono i consorzi di bonifica, le autorità di bacino e altri enti ancora. Ciò, oltre a comportare un’enormità di costi, non ha portato alcun beneficio in termini di pianificazione”.

Tutto questo incide anche sulla prevenzione…
“Certo. Oggi l’interlocuzione sulla prevenzione avviene in un tavolo tecnico cui sono invitate le più disparate autorità e rappresentanze. Ognuna di queste vi partecipa a pieno titolo. Ma spesso lo fa inviando un proprio esponente che del tema di cui si sta discutendo non sa niente. Dobbiamo decidere allora se operare a norma di legge o a regola d’arte. In un Paese virtuoso questi due aspetti sono sovrapponibili. In Italia, invece, si persegue sempre la necessità di dare voce a tutte le categorie, il che sarebbe anche giusto se non diventasse la scusa per non fare niente”.

Il Piano “Italiasicura”, varato nel 2014, prevede uno stanziamento di 7,7 miliardi. A oggi, dopo 3 anni, sono stati spesi circa 115 milioni. Anche questo è il risultato di un’eccessiva burocratizzazione del sistema?
“Assolutamente sì. Faccio l’esempio della Regione Lazio che ha tutta una serie di capitoli di spesa destinati alla riduzione del rischio idrogeologico. Si tratta, però, di stanziamenti teorici perché, di fatto, questi soldi vengono spostati da un capitolo all’altro, dando l’impressione che si stia investendo mentre non è così. E questo perché per fare approvare un progetto possono volerci anche 2 anni, dopo essere passati da un ente all’altro. Coinvolgere maggiormente gli esperti, come i geologi, gli ingegneri e così via, potrebbe ridurre notevolmente l’iter. Queste lungaggini, oltretutto, comportano che, nelle more dell’approvazione del progetto, sia mutato il contesto che lo aveva reso necessario”.

Capitolo terremoti. Perché un sisma di magnitudo 4 come quello di Ischia provoca danni e morti? E’ un problema legato all’abusivismo?
“E’ sicuramente una parte del problema. Le opere abusive, per sfuggire ai controlli, vengono realizzate in poco tempo. Si risparmia sul cemento, sul ferro, sulla finitura, sulle legature tra un cordolo e un pilastro. Con la conseguenza che queste abitazioni sono più fragili di quelle costruite a norma di legge. Ma spesso anche le case ‘regolari’ vengono edificate con materiali scadenti. Così anche un terremoto di entità modesta, come quello avvenuto nell’isola partenopea, può provocare danni e vittime. Questo non avviene in Paesi con problematiche simili, come il Giappone, che hanno investito in sicurezza. La qual cosa non significa solo irrigidire le strutture ma anche informare la popolazione sul modo in cui comportarsi quando questi eventi si verificano. Cosa che, in Italia, fatta eccezione di qualche regione, non avviene. Noi, come Ordine dei geologi, lo stiamo facendo nelle scuole del Lazio”.

Un problema spesso sottovalutato è quello delle frane. Dopo i recenti incendi boschivi, specie quelli avvenuti nei pressi di strade e autostrade, c’è il rischio di uno sciame di smottamenti con la stagione invernale?
“E’ innegabile che ci sia, perché il territorio non è stato messo in sicurezza. Di frane ce ne sono centinaia e migliaia ogni giorno in Italia, fortunatamente la maggior parte avviene in alta quota e non provoca vittime. Questo è dovuto anche al progressivo abbandono delle campagne, che non vengono più curate come un tempo. Bisognerebbe tornare a monitorare il territorio, come facevano, fino a qualche anno fa, i cantonieri dell’Anas e i casellanti ferroviari. I quali, nella porzione di strada o di ferrovia loro affidata, verificavano la presenza di eventuali criticità e, se necessario, intervenivano, di persona o segnalando il problema ai loro superiori. Di questo dovrebbero occuparsi i guardiaparchi e gli uomini della Forestale, oggi poco impegnati nel monitoraggio del territorio. Una frana non si verifica quasi mai all’improvviso, ci sono diversi segni premonitori. Saperli riconoscere per tempo significa mettere in sicurezza intere zone, evitando che si verifichino tragedie”.