CIO’ CHE NON POSSO DIRE A PAROLE

Papa Francesco lo chiama “una croce”. Perché l’autismo ancora oggi è una patologia, riconosce, “che molte volte stenta non solo ad essere diagnosticata, ma – soprattutto per le famiglie – ad essere accolta senza vergogna o ripiegamenti nella solitudine”. E dona le carezze per comunicare con bambini e genitori; usa quel tatto, il suo più naturale e intimo davanti a chi soffre, all’inizio e alla fine dell’incontro nell’Aula Paolo VI, cercando in mezzo alla falange di braccia protese verso di lui soprattutto le mani più piccole, le teste più piccole, anche se non reagiscono alle sue carezze che invece sciolgono lacrime più grandi di chi è a fianco di questi piccoli. Ma ci sono anche volti sui quali la malattia ha scritto una storia di anni e per questo universo di fragili combattenti il Papa diventa una voce forte che infonde coraggio. Mille storie, tutte uguali e tutte diverse.

Come quella di Yavor, che ha passato i primi due anni di vita in un lettino di ferro posto in una stanza senza riscaldamento, nessun gioco e nessun affetto. Era all’interno di un orfanotrofio dell’Europa dell’est. Insieme a lui un centinaio di altri piccoli condividevano quella terribile situazione in uno stato di abbandono e con un servizio totalmente anaffettivo da parte del personale. Poi il coraggio, unito alla determinazione di una famiglia gli cambia per sempre la vita. Marco e Alessandra, partono dall’Italia per conoscere Yavor e solo un anno dopo riescono ad adottarlo.

La coppia fa ritorno a casa senza sapere che il piccolo presentasse dei problemi. Una notte il bambino viene colpito da un attacco di laringospasmo e viene subito ricoverato nel reparto di neuropsichiatria dove gli viene diagnosticato un deficit cognitivo con tratti autistici. Per Yavor cominciano inesorabili le prime terapie e i primi approcci con neuropsichiatri e psicologi.

All’età di sette anni affronta il test più duro: quello di socializzare con i suoi coetanei. “In quel periodo ancora non parlava e non riuscendo ad esprimersi spesso si comportava in maniera aggressiva e questo gli rendeva difficile l’integrazione” – racconta il padre -. I compagni di classe lo isolano e lui a sua volta si chiude nel suo mondo. Lentissimamente le cose migliorano grazie all’assiduo e determinante lavoro associato di psicologi, terapisti comportamentali, logopedisti oltre che degli insegnanti e della famiglia.

“Il mondo intorno a questa patologia – denuncia Marco – è ancora intorpidito e le istituzioni potrebbero fare molto di più. Un primo passo sarebbe mettere a disposizione più fondi per favorire interventi terapeutici più intensi. Inoltre non esiste una struttura pubblica che operi direttamente sulle persone autistiche e, cosa ancor più grave, dopo che Yavor ha compiuto 18 anni, è stato completamente abbandonato dalla sfera medica e organizzativa. Ciò è inammissibile e rappresenta uno schiaffo per chi soffre di questa patologia”.

Anche se la scienza medica progredisce, il problema non è tanto il riconoscimento dell’autismo quanto l’individuazione delle sue cause: al momento queste non sono note e ciò spiega perché la diagnosi si fa tramite test comportamentali e non con marcatori biologici. L’informazione sulla tematica, ancora troppo debole, ha diffuso diversi stereotipi del tipo: il bambino autistico non parla, non vuole comunicare con gli altri, non migliorerà mai, è chiuso nel suo mondo e non vuole essere toccato. Se si vuole far qualcosa di concreto è necessario prima di tutto uscire da questo tunnel di false credenze che inghiotte gli esseri umani rendendoli invisibili.

 foto Francesco Sforza