CARCERE, LA LIBERTA’ TRA LE PIEGHE DI UN LIBRO

“Questi qui commettono reati e poi pensano di fare gli scrittori, vogliono essere liberi”. E’ praticamente una sentenza, più dura di quelle del tribunale, più tagliente di una ghigliottina. Una di quelle che ti marchiano a fuoco tutta la vita: hai sbagliato, sei fuori. La frase è stata pronunciata da un secondino di turno a Regina Coeli durante la consegna del premio letterario Goliarda Sapienza, dedicato proprio ai detenuti. E mentre la diceva cercava approvazione; in realtà con quel giudizio ha reso perfettamente l’idea di quale sia il problema delle carceri italiane.

“Finché non cambierà questa mentalità forcaiola anche un premio letterario per carcerati lascia il tempo che trova” dice Giovanni Arcuri, 54 anni, ex detenuto, oggi scrittore e attore. Lui è uno fortunato, perché ha avuto una famiglia alle spalle, si è fatto una cultura; non tutti sono così, e per far sì che la cella non sia solo un parcheggio di esseri umani “a questa gente – dice – vanno dati degli input. Altrimenti commettere un reato ti segna per l’eternità”.

Forse sarebbe bene ricordare più spesso il motivo per cui esiste una pena: il concetto di rieducazione, di reinserimento sono alla base della condanna detentiva, che non è e non deve essere una tortura, neanche psicologica. “Va cambiata la mentalità soprattutto di chi sta fuori  – dice ancora Arcuri a Interris.it – e di chi nel carcere ci lavora. C’è una formazione che non permette di vedere ciò che serve realmente a un detenuto”. E quali potenzialità abbia.

Anche Giovanni conosce bene la prigione, a Rebibbia c’è stato dieci anni. Era un broker della droga: “Mettevo in contatto chi aveva con chi cercava”. Nel 1978 decide di partire e vola in Venezuela, a Caracas. Entra in contatto con le persone che contano: politici, affaristi, e poi con i più potenti produttori di coca del Paese. Si trasferisce in Bolivia, da lì comincerà la sua attività nel narcotraffico. Diventa anche lui uno che conta, ha contatti in gran parte dell’America Latina. La storia dura finché il suo referente in Italia non viene preso, a quel punto diviene latitante a seguito di un mandato di cattura internazionale. Quando rientra di nascosto per visitare la madre viene arrestato.

È in carcere che riprende a scrivere, una passione nata al liceo e poi abbandonata: “La scrittura è una forma di evasione e di espiazione, perché ti metti in gioco e rifletti sugli errori che hai fatto”. Una sorta di catarsi che non solo non può essere negata ma andrebbe incoraggiata.

Solo un mese fa Panorama riportava le linee guida della Commissione speciale voluta da Renzi e guidata dal procuratore Nicola Gratteri, che vorrebbe sostituire con la polizia ordinaria il dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria; un cambio che visto dai detenuti non sembra un miglioramento.  Proprio la settimana scorsa Luigi Pagano, vice capo vicario del Dap, ha firmato il Protocollo operativo sullo statuto e le modalità d’azione del volontariato in ambito penitenziario; un accordo che rafforza la collaborazione tra  Amministrazione Penitenziaria e associazioni. Un passo in avanti, in particolare per l’”umanità” che questa impostazione può portare all’interno degli istituti di pena.

Purtroppo però “c’è sempre qualcuno pronto ad ostacolare queste idee – constata ancora Arcuri – e il carcere rimane quello che è. Non ci sono i soldi, non c’è attenzione quindi non c’è dignità: “Siamo l’unico paese in Europa che non permette visite coniugali, che nega a un detenuto il diritto di avere un figlio. Sai cosa significa vivere con cinque persone in uno spazio ristrettissimo? Poi magari ti capita un violento. Uno che ti prende la roba che ti portano da casa, finché non prendi uno sgabello e glielo spacchi in testa, perché non c’è alternativa. Se ti senti male ti danno al massimo la Tachipirina, se hai bisogno di una visita specialistica aspetti quattro mesi. Prima, una volta al mese, passavano i prodotti igienici poi hanno smesso di fare anche quello. Se non hai una lira o una famiglia vivi nella miseria”. Ultimo tra gli ultimi.

E allora a che serve scrivere? “Serve perché anche a queste condizioni diventa il modo per essere liberi dentro, come il titolo del mio secondo libro. Quando prendevo appunti tra le undici e le tre di notte era come passare tre ore fuori dal carcere”. Dopo “Libero dentro” (che segue “Il nemico invisibile”, 2008) arriva “Cesare deve morire” dei fratelli Taviani, poi la libertà, un lavoro d’attore; uno schiaffo a chi preferirebbe “cure” medievali per debellare la delinquenza.