Lo scandalo della disciplina sulla prescrizione

rp_claudio_curreli-150x150.jpgE’ delle settimane scorse la notizia della sentenza con cui, la Corte di Cassazione, ha dichiarato estinto per prescrizione il reato di disastro ambientale doloso contestato ai vertici della Eternit di Casale Monferrato. In estrema sintesi, ed evitando i tecnicismi, dopo anni di indagini e due processi, giunti ad un passo da una definitiva pronuncia sulla responsabilità degli imputati (responsabilità riconosciuta in primo grado ed in appello con condanna degli imputati alla pena di 18 anni di reclusione), si è pervenuti ad una sentenza di proscioglimento degli stessi perché, dal momento del fatto, era decorso il tempo massimo entro il quale, necessariamente, doveva concludersi l’ultimo grado di giudizio.

A questa conclusione si è giunti per effetto della disciplina vigente in Italia in materia di prescrizione, disciplina profondamente ridisegnata dalla L. n. 251/2005, cosiddetta legge ex Cirielli. Tale legge, se – da una parte – ha ancorato la prescrizione alla pena massima prevista per il singolo reato (di fatto dimezzando, rispetto al passato, i termini della prescrizione stessa per la stragrande maggioranza dei reati), ha – dall’altra – mantenuto ferma la regola secondo la quale la prescrizione non si interrompe mai nel periodo compreso tra l’esercizio dell’azione penale e l’inizio del dibattimento, durante la celebrazione del processo di primo grado, mentre perdura il termine previsto dalla legge o deciso al giudice per il deposito della motivazione della relativa sentenza, durante i tempi previsti per la proposizione delle impugnazioni e infine nel periodo dei giudizi di impugnazione (appello e cassazione).

Ebbene, se la ratio della prescrizione risiede nel fatto che, a distanza di molto tempo, viene meno l’interesse dello Stato sia a punire un comportamento penalmente rilevante, sia a tentare il reinserimento sociale del reo, si fa difficoltà a comprendere perché il reato si debba estinguere nonostante lo Stato manifesti chiaramente l’intenzione di punire un fatto-reato, impegni mezzi e uomini per farlo (sottraendoli ad altre attività proprie del loro Ufficio), accerti dette responsabilità in primo e secondo grado, sostenga costi significativi a tal fine.

Certamente non vi è alcun senso a computare, nel termine di prescrizione, tutto ciò che avviene dopo che lo Stato, quanto meno con l’esercizio dell’azione penale, ha chiaramente dimostrato di voler accertare e punire un fatto-rato. Men che meno si comprende perché il reato sia destinato ad estinguersi per decorso del tempo dopo che vi è stata una sentenza di condanna in primo grado e perché debbano computarsi i termini per il deposito delle relative motivazioni, i tempi delle notifiche degli avvisi di deposito della sentenza in parola, i termini per la proposizione delle impugnazioni e i tempi del processo di secondo grado (ma lo stesso discorso vale anche per i corrispondenti tempi del processo in Cassazione).

E il fatto che non abbia senso è con evidenza dimostrato dalla circostanza che, quella sopra descritta, è una “stranezza” solo italiana.

Claudio Curreli
Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Pistoia