“Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto”

«Ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto»
«Et omnem, qui fert fructum, purgat eum, ut fructum plus affĕrat»

Quinta Settimana di Pasqua – Gv 15,1-8

In quel tempo, disse Gesù ai suoi discepoli: “Io sono la vite vera e il Padre mio è l’agricoltore. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia, e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto. Voi siete già puri, a causa della parola che vi ho annunciato. Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete fare nulla. Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e secca; poi lo raccolgono, lo gettano nel fuoco e lo bruciano. Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto. In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli”.

Il commento di Massimiliano Zupi

Il tralcio viene potato perché porti più frutto. La vita viene attraversata dalle sofferenze perché fiorisca. Come scriveva il poeta tragico greco, Eschilo, «páthei máthos», «si impara attraverso la sofferenza». Qual è il potere della sofferenza? Viene una malattia a privarci delle energie vitali e tutto costa fatica: dov’è il bene? Siamo perseguitati da nemici; peggio ancora, i nostri stessi familiari non ci amano, non ci sono fedeli: dov’è la luce?

Il male e la sofferenza, la potatura, non sono voluti da Dio (Sap 1,12-14); tuttavia sono necessari, come il fuoco per purificare l’oro (1 Pt 1,7): ogni taglio è l’occasione per liberarci da alcune catene che ci tengono prigionieri, per alleggerirci da fardelli che ci portiamo appresso e ci rallentano il passo. L’esistenza è davvero un esodo: un cammino di liberazione progressiva; è una gestazione: il tempo necessario affinché ci formiamo e nasciamo. È un lungo tirocinio per imparare ad amare: per conoscerci, sentirci amati e liberarci da noi stessi. Il male è il mistero della notte in cui solo può brillare la luce: nell’infedeltà infatti possiamo rimanere fedeli, incondizionatamente; nell’infermità possiamo affidarci totalmente a Dio e alle persone che ci assistono. La sofferenza, il male subìto, elasticizzano il cuore. Ogni abbandono può diventare una forma di dono, di oblazione, ogni potatura un’occasione di più rigogliosa crescita e fioritura: allora ci si scopre figli di Dio come il Figlio, figli nel Figlio, e si diventa capaci di generare vita come Dio, padri nel Padre.