La stabilità politica non si ottiene con le tifoserie

Ci sono situazioni davvero importanti che riguardano l’andamento della politica nostrana che io da molto tempo non capisco. Oramai molte sono le fasi, peraltro molto rapide, che promuovono leader che sembrano per alti consensi conseguiti, dover durare molti anni, ma poi puntualmente precipitano nei consensi, e dunque le carte si rimischiano con punto e a capo. Ormai è una certezza: si ripete sempre la solita storia che ci fa sfuggire la stabilità. Negli ultimissimi anni la perita rapida di consensi è accaduto a Silvio Berlusconi, poi a Matteo Renzi, poi a Beppe Grillo, ed ora sembra capitare anche a Matteo Salvini che in due mesi precipita nei consensi di più di dieci punti. Si dirà che è la democrazia, ma non è proprio così. Quando i consensi calano così sensibilmente in un breve lasso di tempo, è più che chiaro che le conseguenze riguardo all’azione di chi ne vuol prenderne il posto nella popolarità, e di chi disperatamente li vuol recuperare, produce un clima di competizione negativo per tutto il tempo della legislatura.

È accaduto più volte ormai, ed in più legislature, che il partito che ha fatto il pieno dei voti, con un numero importante di rappresentanti in parlamento, dopo poco tempo, dalla popolarità, piomba nella impopolarità. Di qui l’attivismo frenetico di chi vuol guadagnare i consensi che gli altri perdono, così come chi li sta perdendo cerca la rimonta. Per questa ragione vediamo ministri e leader politici scorrazzare per l’Italia non per approfondire i dossier sugli innumerevoli nodi amministrativi, sociali ed economici dei vari luoghi della penisola ed isole, ma semplicemente per fare comizi, assemblee, convegni. Quando poi si torna a Roma, ed è ben già ridotto il tempo per dare indirizzi e riceverne dalle dirigenze del ministero, una parte importante del residuo tempo, viene assorbito da conferenze stampa e partecipazione ai talk show.

Se dovessimo approfondire del perché questo fenomeno è così vistoso in Italia, io credo che lo dobbiamo ad una distorsione avvenuta nella nostra democrazia: partiti troppo ‘leaderistici’ con un solo uomo al comando in discontinuità con l’esperienza politica dei paesi liberali. La partecipazione interna ai partiti è conseguentemente ridotta al massimo alla tifoseria interna; i criteri per la scelta alla candidatura e poi all’elezione dei rappresentanti al parlamento, sono passati dall’elettore al leader. Infatti da quando gli elettori non hanno più potuto scegliere con preferenza il proprio candidato, ma lo decide il leader, si produce un fossato incolmabile tra parlamentare eletto e cittadini che non lo riconoscono. Questo situazione determina un forte corto circuito tra partiti e cittadini, che rende endemicamente debole la rappresentanza e produce contraccolpi molto scomposti da parte del corpo elettorale. Infatti la pedagogia democratica, che viene conseguita attraverso meccanismi delicati dove i pesi del potere della compartecipazione alle scelte e la diffusione dei pesi della rappresentanza sono distribuiti, venendo a mancare provoca vuoti che si ripercuotono su autorevolezza e prestigio della politica.

È inutile dire che in tempi come quelli che viviamo: mondializzazione della economia, l’irrompere di nuovi grandi paesi rapidamente giunti a livelli di potere economico e politico, la stessa pandemia che subiamo, avrebbero bisogno di poteri stabili e diffusi per poterci proteggere. È vero: da molto cerchiamo stabilità, ma penso che finché la cerchiamo nel modo sbagliato, otterremo immancabilmente il risultato opposto,  con prezzi altissimi economici e di deriva populistica.