Carlo Alberto dalla Chiesa: difese dal terrorismo lo Stato, che non lo difese dalla mafia

A Saluzzo, in piazza Garibaldi, sorge un monumento a Carlo Alberto dalla Chiesa, inaugurato nel centenario della nascita, avvenuta il 27 settembre 1920 proprio lì, a Saluzzo. L’opera d’arte collettiva, affidata a sei artisti del territorio, dovrebbe testimoniare i sentimenti di riconoscenza della comunità nei confronti del generale prefetto, che contribuì alla sconfitta del terrorismo e che fu ucciso dalla mafia a Palermo il 3 settembre 1982, con la moglie Emanuela Setti Carraro e l’agente di scorta Domenico Russo.

Il monumento è un totem, ottenuto dalla sovrapposizione di sei sezioni cilindriche alte 60 cm ciascuna per 100 cm di diametro: ogni sezione ha un suo significato simbolico. L’opera non è particolarmente riuscita. Ai saluzzesi, quel monumento non piace: una costruzione concettuale fredda e senza pathos; e, probabilmente, non sarebbe piaciuto neppure al generale, l’uomo che contrastò con successo le Brigate Rosse e ne avviò lo smantellamento e che poi lo Stato mandò allo sbaraglio a Palermo a combattere la mafia senza un’auto blindata, su una A112 che non offriva nessuna protezione alle raffiche di Kalashnikov AK-47 dei sicari di Cosa Nostra.

Saluzzesi entrambi, ma nessuno dei due radicato a Saluzzo, la mia vita professionale incrociò quella del generale dalla Chiesa a Torino nella seconda metà degli Anni Settanta: io ero un cronista pivello della Gazzetta del Popolo e mi occupavo di terrorismo; lui era già generale di Brigata ed era l’uomo di punta dello Stato nella lotta contro le Brigate Rosse – su sua proposta, era stato creato il Nucleo Speciale Anti-Terrorismo attivo tra il 1974 e il ’76 -.

Lo incontrai sulla scena di qualche attentato – a Torino, negli ultimi Anni Settanta, ce n’erano decine l’anno: gambizzazioni e ammazzamenti, ‘capetti’ della Fiat, uomini di legge e delle forze dell’ordine, giornalisti – e alle conferenze stampa, le poche cui interveniva -. Metteva soggezione e, quando ti rivolgeva la parola, avvertivi l’impulso di metterti sull’attenti.

Lo circondava il rispetto dei suoi uomini e la stima dei suoi interlocutori, magistrati, politici, giornalisti. Lui, figlio di un generale dei Carabinieri, Romano dalla Chiesa, e di Maria Laura Bergonzi, carabiniere pluri-decorato nella Seconda Guerra Mondiale e attivo nella Resistenza, dopo la guerra ebbe incarichi a Napoli e in Sicilia, dove cominciò a conoscere la malavita organizzata, e in varie altre sedi e poi ancora in Sicilia, dove, tra il 1966 e il ’73, comandò la Legione Carabinieri di Palermo e indagò su Cosa Nostra.

Nell’ottobre 1973 era divenuto comandante della 1ª Brigata Carabinieri (con sede a Torino), competente sulle legioni Carabinieri di Torino, di Alessandria e di Genova che coprivano Piemonte, Valle d’Aosta e Liguria. Sul piano personale, gli anni di Torino furono segnati dalla tragica perdita della moglie, Dora Fabbo, sposata a Bari nel 1946 e stroncata in casa da un infarto.

Promosso generale di divisione, fu nominato nel 1978 coordinatore nazionale delle forze di polizia e degli agenti informativi per la lotta contro il terrorismo, con poteri speciali. Dal 1979 al 1981 comandò la Divisione Pastrengo a Milano; tra il 1981 e il 1982 fu vice-comandante generale dell’Arma.

Nel 1982, il 6 aprile, anche in forza dell’esperienza già fatta in Sicilia, e di fronte alla virulenza della mafia, venne nominato prefetto di Palermo: la missione affidatagli dal governo – presidente del Consiglio Giovanni Spadolini e ministro dell’Interno Virginio Rognoni – era di antagonizzare Cosa Nostra con la stessa efficacia che aveva mostrato contro il terrorismo.

Ma lo Stato non rispettò le promesse di uomini e mezzi. Dalla Chiesa si sentì presto solo e mandato allo sbaraglio, osteggiato dai politici siciliani e non adeguatamente sostenuto da quelli nazionali. Ci vollero meno di cinque mesi ai capi mafiosi per sbarazzarsi di lui. La concessione alla memoria della medaglia d’oro al valor civile suonò riconoscimento, da parte dello Stato, dei propri errori e delle proprie negligenze.

Con lui e con la guardia del corpo, Cosa Nostra uccise la giovane moglie, Emanuela Setti Carraro, una crocerossina di appena 32 anni, sposata in seconde nozze il 10 luglio.

Figura non priva di ombre per le polemiche che accompagnarono a più riprese il suo operato, che talora anteponeva l’efficacia al rispetto delle regole, per i rapporti non sempre facili con la politica e per il coinvolgimento nello scandalo della P2, Carlo Alberto dalla Chiesa è simbolo della vittoria dello Stato sul terrorismo e vittima della debolezza della politica verso la mafia.