Tecniche di neutralizzazione: origini ed effetti sociali

Ecco come alcuni studi hanno analizzato le "tecniche di neutralizzazione" e cosa ne è emerso

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Foto di Tumisu da Pixabay

Le “tecniche di neutralizzazione”, evidenziate da studi statunitensi degli anni ‘50, sono strategie con le quali i criminali e i devianti cercano di ribaltare i loro colpevoli atti, di giustificarli e, in un equilibrismo estremo, di far ricadere le cause sulle vittime. Tali tattiche neutralizzano le riserve etiche, morali e interiori che l’individuo si pone dinanzi alla commissione di un atto deviante. La teorizzazione si deve a due sociologi e criminologi, David Matza e Gresham Sykes, attraverso un saggio dal titolo “Techniques of neutralization: a theory of delinquency”, pubblicato nel numero 6 (dicembre 1957), della rivista bimestrale “American Sociological Review”.

I due studiosi hanno individuato cinque diverse tecniche di neutralizzazione: negazione della responsabilità (“non è colpa mia”), negazione del danno (“non si è fatto male nessuno”), negazione delle vittime (“se l’è voluta”), condanna dei condannati (“non avete diritto di giudicarmi”) e appello a lealtà superiori (“gli ideali che difendo sono migliori”).

Il primo caso riguarda coloro che si fanno scudo del comando di un superiore, del non aver potuto agire in maniera diversa, a esempio i gerarchi nazisti, vi rientrano anche i “colletti bianchi” con le loro frodi di natura finanziaria. Con la seconda tecnica, si prova a legittimare il proprio operato affermando come non si sia arrecato, in fondo, un danno serio. Il deviante sfida a dimostrare l’entità del danno occorso. Con la terza, si cancella l’esistenza della vittima e, quindi, di un’azione che possa aver prodotto disagio a qualcuno. La quarta tecnica (condanna dei condannati), mira a delegittimare i giudici, a ritenerli corrotti, primi colpevoli e, di conseguenza, a considerarsi perseguitati, ponendosi come paladini contro l’ingiustizia. La quinta, l’appello a lealtà superiori: la società non sanziona le vere ingiustizie e si concentra, in modo sproporzionale, a penalizzare reati molto superficiali.

Fra i metodi utilizzati, quello di minimizzare il proprio atto, di sottolineare che crimini più gravi siano più tollerati, che si è vittime di ingiustizie carcerarie, che (come nell’evasione fiscale) “lo fanno tutti”. Con tale deresponsabilizzazione, si tende, a esempio, a mistificare uno stupro poiché “si trattava di una prostituta”, la pedofilia “perché anche i giovani hanno diritto alla libertà sessuale”. Si tratta di strategie cognitive che tendono alla giustificazione dell’atto, sia prima che venga commesso sia dopo, per rientrare nei canoni che quel determinato contesto sociale considera come corretti. La deresponsabilizzazione è anche uno degli elementi alla base del cyberbullismo: l’autore si rende facilmente anonimo e, in caso di individuazione, si aggrappa agli specchi, accampa scuse e delegittima la sua vittima colpevolizzandola.

Nell’incapacità di ammettere il proprio errore, il corollario, a livelli più alti, è quello di ritenersi innocente anche dinanzi all’evidenza. Dibattiti, discussioni, accuse e discolpe, sono temi cari ai mezzi di comunicazione e risultano quasi onnipresenti in tv e nel web. Le applicazioni di queste tecniche riguardano ogni aspetto della vita: famiglia, scuola, lavoro, gruppi sociali, ecc. È, quindi, comprensibile il peso che tale atteggiamento può avere negli aspetti relazionali di tutti i giorni. Chi vi ricorre, criminale o deviante, non pretende di uscire dai valori del contesto sociale in cui si trova, bensì cerca di porli a proprio vantaggio.

In questo, ricorda i discorsi e il relativismo proposti da qualche suo antesignano di circa 2500 anni or sono: i noti sofisti dell’Ellade che, attraverso abili discorsi, cercavano di confutare l’opinione altrui, di rendere forte quella debole e di rendere debole quella forte, adeguando tutto alla convenienza individuale, senza alcuna cura di ricercare la verità e l’assolutezza. A livello semantico, si ribalta l’essenza dell’atto: un furto di denaro può esser considerato solo prelevamento improvviso di una somma per placare la fame dei figli.

Così Papa Francesco all’Angelus del 29 agosto 2021 “Spesso pensiamo che il male provenga soprattutto da fuori: dai comportamenti altrui, da chi pensa male di noi, dalla società. Quante volte incolpiamo gli altri, la società, il mondo, per tutto quello che ci accade! È sempre colpa degli ‘altri’: è colpa della gente, di chi governa, della sfortuna, e così via. Sembra che i problemi arrivino sempre da fuori. E passiamo il tempo a distribuire colpe; ma passare il tempo a incolpare gli altri è perdere tempo. Si diventa arrabbiati, acidi e si tiene Dio lontano dal cuore. […] Perché c’è un modo infallibile per vincere il male: iniziare a sconfiggerlo dentro di sé. I primi Padri della Chiesa, i monaci, quando si domandava loro: ‘Qual è la strada della santità? Come devo incominciare?’, il primo passo, dicevano, era accusare se stessi: accusa te stesso. L’accusa di noi stessi. […] ‘Sì, questo mi ha fatto questo, quell’altro… quello una barbarità…’. Ma io? Io faccio lo stesso, o io lo faccio così…”.

“Come si diventa non devianti” è il titolo del volume scritto dal professor Odillo Vidoni Guidoni, pubblicato da “PM Edizioni” nell’ottobre 2021. In particolare, con riferimento ai “colletti bianchi” si affrontano i “rischi di stigmatizzazione attraverso l’adozione di strategie di negazione o neutralizzazione. Tra queste l’attenzione si concentra sulle scuse e le giustificazioni attraverso cui i criminali di alto status tendono ad occultare i propri reati e conservare prestigio e rispettabilità sociale”.

Il ministero dell’Interno, attraverso il Servizio Analisi Criminale, nel report del 5 giugno scorso, in tema di omicidi volontari, visibile al link https://www.interno.gov.it/sites/default/files/2023-06/76_settimanale_omicidi_5_giugno_2023.pdf, indica quanto segue “Alla data odierna, relativamente al periodo 1 gennaio – 4 giugno 2023 sono stati registrati 138 omicidi, con 49 vittime donne, di cui 41 uccise in ambito familiare/affettivo; di queste, 24 hanno trovato la morte per mano del partner/ex partner. Analizzando gli omicidi del periodo sopra indicato rispetto a quello analogo dello scorso anno, si nota un aumento del numero degli eventi, che da 126 passano a 138 (+10%), mentre il numero delle vittime di genere femminile mostra un decremento degli episodi, che da 50 passano a 49 (-2%). Per quanto attiene ai delitti commessi in ambito familiare/affettivo, si evidenzia un incremento nell’andamento generale degli eventi, che passano da 59 a 64 (+8%), mentre fa registrare un decremento il numero delle vittime di genere femminile, che da 44 diventano 41 (-7%). Risultano in aumento, rispetto allo stesso periodo del 2022, gli omicidi commessi dal partner o ex partner, che da 25 salgono a 27 (+8%), mentre diminuisce il numero delle relative vittime donne, le quali da 25 passano a 24 (-4%). Infine, nel periodo 29 maggio – 4 giugno 2023 risultano essere stati commessi 7 omicidi, con 2 vittime di genere femminile, entrambe uccise in ambito familiare/affettivo; di queste, una ha trovato la morte per mano del partner o ex partner”.

Gli studi (Hollinger nel 2010) dimostrano che ricorrono alla neutralizzazione più i lavoratori adulti che quelli giovani. La tendenza a scaricare responsabilità, a non effettuare un esame di coscienza e a non pentirsi è piuttosto diffusa.  In tal caso, si rischia di perdere aderenza alla realtà e di vivere, più o meno volontariamente, una dimensione confusa. La bandiera che si fa garrire, sembra essere quella di una persona sempre pronta a lamentarsi e a difendersi dagli attacchi del prossimo ma, in realtà, il colore del drappo è bianco, di una resa, di un’incapacità a relazionarsi col mondo esterno e di conoscere se stessi.

L’altro non è il punchball della propria frustrazione né la sponda da sfruttare e da cui saltare per non sprofondare. Neutralizzare le proprie responsabilità è un atto egoistico, con il quale si inverte la colpa e si condanna due volte la vittima: oltre al danno, la beffa. Nell’epoca dell’immagine perfetta e dell’impeccabilità da esibire a ogni costo, ammettere un proprio errore sarebbe un duro colpo al proprio prestigio. Cosa direbbero i follower? Quanti “mi piace” si rischia di perdere? Quanto si diventerebbe fallibili e non semidivini? È fondamentale mantenere la posizione di superiorità tanto conquistata o, comunque, in cerca di affermazione. Ammettere non collima con la presunzione di esser superiori e migliori.

Derubricare e minimizzare la colpa propria, aumentare e massimizzare il ruolo del prossimo. Quest’ultimo è, spesso, presentato in una veste negativa che giustificherebbe il comportamento violento: è un drogato, una prostituta, una persona aggressiva da fermare. Il pusillanime tentativo di screditare il prossimo viene meno a una forma di rispetto e di amore e scava, di più, una netta cesura.

Il tentativo di scappare dalle sanzioni “terrene”, produce un egoismo di “salvataggio” del proprio io, senza esame di coscienza ma si dimentica che il “salvagente” è destinato a sgonfiarsi. Le autogiustificazioni dei devianti, dei criminali, dei colpevoli di reati finanziari, possono solo illudere di “pulire la coscienza”. Un misfatto, coperto da equilibrismi e virtuosismi dialettico/concettuali, conduce soltanto a beffare, doppiamente, le povere vittime, a lucrare su loro. La povertà non ha bisogno di neutralizzare: è diretta, visibile, chiara, non si nasconde, se non per pudore, quello che non hanno i neutralizzatori.

Il loro tempo verrà: chiamati a rendere conto, un giorno, del loro operato terreno, sarà impossibile neutralizzare e nessuna delle cinque tecniche sarà utilizzabile. Anche un’ipotetica sesta, prodotta, dallo speculare umano, non avrà rilevanza, anzi.