Il supereroe

Supereroe

Negli anni Sessanta, quando ero adolescente, il fumetto in voga era Topolino ed il personaggio più simpatico era Paperino, un misto di sbadataggine, imprecisione, pigrizia e sfortuna che lo rendeva incapace di qualsiasi successo, il perdente nato. Ma godeva della simpatia di tutti perché era vero, possibile, umano; il suo contrario era Gastone, fortunatissimo, sempre acchittato, vincente, ma ciononostante era di un’antipatia istintiva con la sua superbia, la sua saccenteria, la sua arroganza ed il suo egoismo in stridente contrasto con la generosità commovente che rendeva amabile Paperino.

Il mondo cresceva, i diritti avanzavano, le ingiustizie venivano combattute, si era in salita dopo la ricostruzione, i giovani si formavano una loro coscienza, avanzava la consapevolezza. Poi vennero gli anni Settanta e cominciarono le contestazioni studentesche, le guerriglie urbane, e sul finire di essi un evento che ho sempre ritenuto dirimente: l’omicidio di Aldo Moro. Era il simbolo del dialogo costruttivo tra le forze sociali, l’antitesi della violenza che dilagava, aveva il suo disegno di soluzione del contrasto con le forze della sinistra aprendo le trattative per l’ingresso al governo.

Fu impegnato agli Esteri e garantì all’Italia la non aggressione terroristica da parte dei guerriglieri palestinesi che combattevano per conquistare l’attenzione mondiale sul loro problema territoriale con Israele. Fu assassinato alla fine degli anni Settanta e la sua morte segnò, non saprei dire se solo per concomitanza temporale, la fine di un pensiero e l’avanzare di un altro, di segno opposto, cui non eravamo abituati.

Nei fumetti si fece strada il supereroe, si chiamò prima Goldrake, poi Mazinga, veniva dall’estremo oriente, aveva caratteri spaziali e le sue caratteristiche erano l’invincibilità, la forza assoluta, le armi più efficaci. Nei ragazzi si mutò l’emulazione, dall’ironia simpatica della sfortuna di Paperino all’aggressività ed alla forza dirompente del nuovo eroe, che meritò l’appellativo di super. Anche Superman si fece avanti, con le sue doti innaturali.

I ragazzi cambiarono registro e cominciarono le sfide di forza, le imitazioni inducevano a combattere ed a distruggere l’avversario, i giochi erano tesi alla vittoria per la maggiore forza e la indomabile potenza, facendo ricorso anche a strumenti invincibili. Cambiò il costume. Il migliore era quello che vinceva rispetto a quello che sapeva di più, divenuto desueto. Il modello da imitare era il più forte, non più il più simpatico.

Le sfide avevano l’obiettivo di vincere a qualunque costo, di massacrare l’avversario; piano piano si introduceva anche l’idea che non era utile vincere, quanto distruggere l’avversario: il perdente era da eliminare. Un capovolgimento di rotte. Una direzione coniata oltreoceano cui non eravamo abituati; il nostro tratto caratteristico non è mai stata la forza ma la simpatia, non l’attacco ma il disarmo, non la lotta ma il dialogo. Questi nuovi costumi sembravano stridere con la sostanziale e proverbiale pacatezza italiana.

Ma l’insistenza, mediatica, culturale, politica ha avuto la meglio e ci siamo popolati di supereroi: nel cinema, nei fumetti, nella musica, in ogni forma di spettacolo, in ogni manifestazione di pensiero. A scuola non bastava più essere promossi o al massimo rimandati a settembre per poi sacrificare i mesi estivi a studiare per non perdere l’anno. No. Bisogna essere i migliori. I ragazzi alle scuole superiori conquistano i nove ed i dieci che prima erano riservati solo agli alunni delle prime classi elementari.

Bisogna emergere, occorre laurearsi, poi fare i master, essere più degli altri. Supereroi. Molti lo sono davvero diventati, mostri di scienza in grado di rispondere a qualunque quesito, un po’ privi di quel sano senso pratico che accompagna la vita quotidiana, ma, seduti ai posti di comando, sono enciclopedie viventi nel ramo di competenza. Sanno tutto, meno quello che serve davvero, forse.

Sono asettici, sono macchine da guerra, servono per combattere e per vincere. Combattono e vincono per se stessi, non certo per la squadra. Si è fatto largo l’individualismo giacché si è migliori degli altri, vince il singolo e non la squadra a cui appartiene; poco importa dell’altro, degli altri, di quelli che non combattono, senza pietà per gli sconfitti, umiliati e derisi. Se uno vince tanti soffrono.