Sean Connery, un “Sir” in kilt e una vita per la Scozia

Il grande attore scozzese fu paladino della causa indipendentista, per restituire alla sua Scozia il rango di Nazione autonoma "al pari delle altre"

“Non sono un inglese”. Lo ha ripetuto spesso Sean Connery, nato a Edimburgo e legato visceralmente a tutti i territori oltre il Vallo di Adriano. Scozzese, con orgogliosa rivendicazione, esposizioni mediatiche per la causa indipendentista. Forse è stato questo il suo unico vero rimpianto: non aver visto la Croce di Sant’Andrea uscir fuori dall’Union Jack e sventolare da sola. Ci andò vicino nel 2014, anno dell’IndyRef scozzese, fallito in un momento in cui di Brexit si parlava solo come un’ipotesi. Oggi sarebbe diverso, quasi certamente. E non è detto che la Scozia non ci riesca, forte del Remain votato a gran voce nel 2016 e di una vocazione europea che la separazione da Bruxelles non garantirebbe più. A quell’indipendenza il divo ci ha creduto tutta la vita. Andandosene con quel sano ottimismo proprio di ogni spirito libertario. Per Sean Connery, scomparso ieri a 90 anni, quel trionfo era a portata di mano e lo è tuttora.

Sean Connery (a destra) nei panni di Re Artù ne “Il primo cavaliere”

Connery, cinema e Inghilterra

Era anche “Sir” Connery, nonostante non abbia mai nascosto di avere nulla dell’inglese. Eppure parecchi ruoli storici interpretati nella sua lunghissima carriera con l’Inghilterra in qualche modo c’entravano. L’eleganza tutta british convogliata nel suo personaggio storico, James Bond, la storia ancestrale dell’Albione rievocata interpretando nientemeno che Re Artù ne Il primo cavaliere. Addirittura Allan Quatermain, inglese disilluso dall’impero e trapiantato in Africa, nato dalla penna di Henry Rider Haggard e suo ultimo ruolo nel 2003. Uno degli “uomini straordinari” dell’omonimo film, “gentleman” in lingua originale. Altro richiamo all’Inghilterra che la traduzione italiana ha preferito trasformare in qualcosa di più generico. Andò meglio con il francescano Guglielmo da Baskerville (Il nome della rosa), cavalcando la citazione “holmesiana” di Umberto Eco e impersonando tutte le capacità deduttive dell’investigatore, con un saio al posto di pipa e berretto. Eccentrico londinese, Sherlock Holmes, ma figlio di un autore, Conan Doyle, scozzese come Connery.

Guglielmo da Baskerville ne “Il nome della rosa”

Un “sir” in kilt

Ma del resto, la sua vocazione scozzese non entrò mai nel suo lavoro. Persino il tatuaggio “Scotland forever”, sul suo braccio destro, non apparve mai nelle sue pellicole. Niente kilt sul set, ma fuori sì: in orgoglioso tartan, ogni volta che la circostanza lo richiedeva, con la promessa di tornare a Edimburgo se la sua Scozia avesse raggiunto l’affrancatura da Londra. Sullo Scottish Party e su una leader indipendentista ed europeista come Nicola Sturgeon poggia una sfida epocale per la Saint Andrew’s Cross. Uno scenario che potrebbe concretizzarsi già all’indomani dell’epilogo Brexit, dando per scontata la conferma del terzo partito britannico alla guida della Nazione. Temi da Braveheart dei tempi moderni, con le urne elettorali al posto del campo di Bannockburn e del ponte di Stirling Bridge.

Connery nel suo ultimo ruolo: quello di Allan Quatermain ne “La leggenda degli uomini straordinari”