Sami Modiano, sopravvissuto all’Olocausto: “Finché avrò forza sarò presente per ricordare”

L’intervista di Interris al testimone della Shoah in occasione del Giorno della memoria il 27 gennaio

Sentire la viva voce di un testimone della Shoah che si incrina per il dolore del ricordo della perdita dei propri cari in un campo di sterminio nazista è un’esperienza che incide un segno sull’ascoltatore. Un segno profondo di comprensione dell’importanza della memoria affinché l’orrore delittuoso che è stato non si ripeta mai più. E’ un’esperienza che illumina vividamente le parole del componimento in versi posto da Primo Levi in apertura del suo Se questo è un uomo, “meditate che questo è stato”. La voce è quella di Sami Modiano, nato 91 anni fa – quasi 92 – nell’isola greca più grande del Dodecaneso, nel mar Egeo, Rodi, all’epoca appartenente all’Italia. Uno dei pochi superstiti della tragedia avvenuta nel cuore dell’Europa, il genocidio di circa sei milioni di ebrei a cui si va aggiunta l’eliminazione di dissidenti politici, omosessuali, persone con disabilità, persone di etnia rom e sinti, testimoni di Geova, tra gli altri. Già da bambino di appena 8 anni Modiano conosce l’insopportabile peso dello stigma dell’essere considerato “diverso”, perché di origine ebraica, a causa delle leggi razziali, mentre pochi anni dopo affronta l’incubo della deportazione dell’intera comunità ebraica di Rodi stipati in battelli cargo da bestiame, in una situazione dove il pudore e l’intimità erano negati, fino all’ingresso nel campo di Birkenau, dove si manifestava l’orrore della cosiddetta “soluzione finale” nel lavoro stremante, nel freddo, nella fame, nelle camere a gas e nei forni crematori.

Quirinale.it

Per anni, Modiano – nel 2020 insignito dal capo dello Stato Sergio Mattarella dell’onorificenza di Cavaliere di Gran Croce al Merito della Repubblica Italiana – ha portato con sé il suo vissuto in silenzio, insieme all’interrogativo a cui non trovava risposta riguardo il suo esser sopravvissuto: “Perché io?”. Ma da quando, nel 2005, ne ha parlato per la prima volta accompagnando degli studenti delle superiori al complesso concentrazionario di Auschwitz-Birkenau, ha deciso di dover dare il suo contributo nella trasmissione della memoria. Rispondendo finalmente alla domanda che per decenni lo interrogava. “Ho giurato che non mi sarei fermato, finché avrò la forza sarò presente per ricordare”, dice a Interris nell’intervista che segue, realizzata in occasione del Giorno della memoria, la ricorrenza internazionale che cade il 27 gennaio – data della liberazione del campo di concentramento di Auschwitz. Un monito ineludibile, anche alla luce di un recente episodio di aggressione antisemita contro un bambino di 12 anni, da parte di due adolescenti, in un parco pubblico a Campiglia Marittima, nel livornese.

L’intervista

Nel 1938 vennero emanate le leggi razziali. Cosa significò questo per lei, che aveva appena 8 anni e viveva un’isola dove convivevano ebrei, cristiani, ortodossi e musulmani?

“Rodi era bellissima isola abitata da quattro comunità in cui si viveva in pace. Non ci sentivamo diversi, avevo compagni diverse religioni con cui studiavo, mi divertivo e giocavo. Sono rimasto orfano di mamma a 11 anni. Nel 1938 frequentavo la terza elementare alla scuola statale maschile italiana – ero un bambino educato, buono, studiavo e mi piaceva andare a scuola, ero benvoluto – quando un insegnante mi ha dato, a bassa voce, la brutta notizia: ‘Sei espulso dalla scuola’. Mi sono sentito piombare il cielo sulla testa e in lacrime ho chiesto il motivo di questa mia espulsione. Già a 8 anni rifiutavo di essere diverso, non l’ho capito allora né ora; io sono un essere umano come tutti gli altri. Mio padre,  gerente di una società commerciale, ha cercato di calmarmi da quella crisi di pianto”.

Qual è la storia della sua deportazione?

“Dopo l’armistizio  dell’8 settembre 1943 i tedeschi non hanno accettato che Rodi rimanesse italiana e l’hanno occupata, così piccola comunità ebraica di duemila persone viveva in ansia, in attesa della loro decisione. E’ stata presa il 18 luglio 1944, quasi si speravano che non deportassero più nessuno anche perché stavano perdendo la guerra: invece hanno cancellato una comunità che ha vissuto 500 anni a Rodi. Avevano preparato quattro piccoli battelli cargo da bestiame, il 18 luglio ci hanno preso e il 23 ci hanno portato al porto, mettendoci dentro queste stive che non avevano nemmeno pulite. Siamo partiti verso una destinazione che non conoscevamo stipato peggii degli animali. Avevo 13 anni e mezzo, e mi trovavo, insieme a mia sorella di 16, a mio padre e a tutte le persone che vedevo nel quartiere e nelle sinagoghe ero stato educato al rispetto in un posto dove non si può descrivere la vergogna, con solo cinque secchi d’acqua e un bidone vuoto a disposizione. L’acqua era distribuita a chi aveva la priorità, diversi giovani hanno rinunciato alla loro poca acqua per cederla a qualcun altro, come un’anziana agonizzate. Poi quando una donna anziana è morta, i tedeschi l’hanno buttata in mare: una scena che non posso scordare”.

Fondazione Museo della Shoah

Lei è stato internato a Birkenau dall’estate del 1944 fino al 27 gennaio 1945, lì ha perso suo padre e sua sorella, ma anche conosciuto Piero Terracina. Cosa ha rappresentato quell’incontro per lei?

“Noi nei campi di sterminio eravamo già condannati, a Birkenau c’erano cinque camere a gas e cinque forni crematori. Siamo arrivati il 16 agosto e all’ingresso Josef Mengele, insieme ai suoi collaboratori, faceva la selezione. L’80% dei duemila che eravamo sono stati scelti per essere mandanti direttamente nelle camere a gas, ma abbiamo preso conoscenza di tutto questo soltanto dopo. Il restante 20% era sfruttato come forza lavoro per mandare avanti quella fabbrica della morte. Io avevamo il numero B7956. Ho perso molto presto mia sorella Lucia, poi gli zii, i cugini, e dopo 15 giorni perso anche mio padre: a fine settembre ero già rimasto solo. Mio padre mi aveva dato la sua benedizione e quando volevo farla finita anche io ripensavo alle sue parole e alla mia promessa che avrei resistito. Non volevo deluderlo. Poi, non so perché, sempre dentro Birkenau mi hanno spostato dal lager A al lager D, dove ho incontrato questo ragazzo di Roma, Pietro Terracina. Avevamo perso tutto e nei momenti di sconforto ci siamo aiutati l’un con l’altro, raccontandoci la nostra infanzia. Ci tenevamo per mano sapendo che uno di noi sarebbe andato via prima dell’altro. Posso dire che per me è stato un fratello, un’amicizia nata in quelle condizioni vale di più”.

Cosa si prova ad essere superstite di una tragedia, personale e storica, di queste proporzioni?

“Ce lo siamo chiesto tutti noi sopravvissuti, perché in quel frangente eravamo dei condannati a morte. Il 10 gennaio 1945, mentre imperversavano i combattimenti tra russi e tedeschi, sono stato portato in un ambulatorio, ridotto a uno scheletro di poche decine di chili, dove mi hanno prelevato sangue mattina e pomeriggio, non se per soccorrere i loro feriti. Dopo qualche giorno ho preso parte anche io alla marcia della morte, tre chilometri da percorrere al freddo con indosso solo un pigiama di tela, un cappello e un paio di zoccoli di legno, circondati dai cani pastori e seguiti dagli aguzzini che davano il colpo di grazia a chi non ce la faceva: nessuno doveva rimanere in vita per testimoniare ai russi. A un certo punto sono crollato nella neve, e mentre pensavo ‘papà scusami, non ce la faccio più’ ero contento, perché mi sarei avvicinato a mio padre e a mia sorella. Poi due persone mi hanno sollevato, trascinandomi fino ad Auschwitz dove mi hanno poggiato su un gruppo di cadaveri. Poi sono riuscito, alternando perdite di conoscenza e momenti di ragione, a trascinarmi dentro un fabbricato per ripararmi dal freddo. Mi sono poi risvegliato tra le braccia di una dottoressa russa. Ad essere sopravvissuto ti senti in colpa, un privilegiato: hai lasciato tutti e sei rimasto da questa parte. Vivo con i miei incubi dove rivedo mia sorella”.

 Quando ha deciso di diventare un testimone?

“Ho rotto il mio silenzio molto tardi, perché prima non volevo. Poi l’insistenza di Piero e legge del 2000 che istituisce il Giorno della memoria invitando a raccontare cos’è successo ai ragazzi e nelle scuole, mi hanno dato la spinta. Nei campi di sterminio ci hanno fatto capire veramente cosa sono la fame, il freddo, la sofferenza e il dolore di lavorare 12 ore scalzo, sotto la neve e la pioggia, di perdere una sorella e un padre, di vedere uccidere un disabile, un rom, un omosessuale. Il mio desiderio è che non nessun altro veda ciò che hanno visto i miei occhi, queste cose non si devono dimenticare. Tutto questo mi rimane, non si cancella”.

Nel 2005, dopo sessant’anni, è tornato nel campo. Cosa ha provato, quando lo ha rivisto?

“Avevo intenzione di andare ad Auschwitz-Birkenau in privato, per dire una preghiera per chi ho visto morire là. Nel 2005 l’allora sindaco di Roma Walter Veltroni mi propose di accompagnare 300 studenti delle superiori, insieme a mia moglie, a Terracina – che ci era stato cinque anni prima –  a alla comunità ebraica di Roma. Dopo sessant’anni mi sono ritrovato davanti a tutte le scene che non avevo dimenticato, provavo un dolore tremendo mentre spiegavo, e piangevo. Mi sono girato per guardare i volti dei ragazzi che mi seguivano e ho visto che piangevano anche loro, allora ho trovato la risposta al ‘perché io sono sopravvissuto?’. Ho giurato che non mi sarei fermato e che finché avrò la forza sarò presente per ricordare. Quando verrà il momento me ne andrò felice, raggiungendo Primo Levi, Shlomo Venezia, Piero Terracina, perché credo di aver dato qualche cosa, di aver fatto la mia parte”.

In questi anni fatti di tanti incontri e tante parole, ha notato una sensibilità diversa sull’argomento?

“Grazie a Dio ho avuto dei riscontri molto positivi, altrimenti mi sarei fermato. I ragazzi mi danno lo stimolo di continuare, inoltre siamo stati anche riconosciuti dalle personalità istituzionali italiane. Con la mia testimonianza trasmetto la morte di sei milioni di ebrei e di milioni di altre persone, omosessuali, rom, persone con disabilità, prigionieri politici. Non dobbiamo dimenticare nessuno, anche loro sono esseri umani che il Padreterno ha messo al mondo”.