Wandering: un mix pericoloso di confusione mentale e iperattività

La demenza senile comporta disagi per chi ne soffre e pone il familiare/caregiver in una condizione stressante nel veder sfiorire un proprio caro

Foto di Danie Franco su Unsplash

Il “wandering” (che si traduce con “vagabondaggio”) è un fenomeno attuale e diffuso, per il quale le persone affette da demenza o da morbo di Alzheimer, presentano una voglia irrefrenabile di muoversi, per girovagare negli ambienti domestici e in quelli esterni. Il problema riguarda i pazienti con residue capacità motorie; può verificarsi, inoltre, sia al mattino sia alla sera o alla notte. Gli spostamenti notturni sono da evitare il più possibile poiché, oltre alle incognite e ai rischi del buio, in molti pazienti è stato notato un peggioramento dell’umore e una maggiore aggressività.

Il vagabondaggio, nei grandi centri abitati, rispetto al piccolo paese, rappresenta un rischio elevato dal momento che nessuno, o quasi, conosce il malato e lo stesso ha più occasione di perdersi, sebbene sia provato che gli spostamenti spesso si verifichino verso luoghi già conosciuti.

Non sono chiare le motivazioni che portano i malati a spingersi fuori da casa, a pretendere di uscire. La sintomatologia e le cause di attivazione sono diverse: alcuni soggetti non hanno orari abituali in cui uscire e improvvisano (rendendo più difficoltoso il controllo); altri, invece, sono metodici (forse in loro riecheggia l’abitudine della sveglia mattutina per recarsi al lavoro); in altri casi può essere determinante l’effetto dei farmaci o la presenza di oggetti, per la casa, che possano indurre ad andar via.

La confusione mentale dei soggetti malati, abbinata a stress, uso di farmaci e lampi di ricordi, li porta a uscire da casa. In tal caso, possono rappresentare un problema per la loro sicurezza nonché per il rischio di perdersi. Una delle accortezze più importanti, è dotare i pazienti di braccialetto con nome e numero di telefono del caregiver che può, quindi, essere facilmente contattato. Tenere il documento di identità in tasca è consigliabile ma lascia un margine di rischio per utilizzi impropri o per smarrimento. La tecnologia viene incontro al fenomeno attraverso dei dispositivi dotati di gps e di geolocalizzazione.

Il 28 settembre 2014, Papa Francesco, nell’incontro con gli anziani, ricordò “Non sempre l’anziano, il nonno, la nonna, ha una famiglia che può accoglierlo. E allora ben vengano le case per gli anziani… Purché siano veramente case, e non prigioni! E siano per gli anziani, e non per gli interessi di qualcun altro! Non ci devono essere istituti dove gli anziani vivono dimenticati, come nascosti, trascurati. Mi sento vicino ai tanti anziani che vivono in questi Istituti, e penso con gratitudine a quanti li vanno a visitare e si prendono cura di loro. Le case per anziani dovrebbero essere dei ‘polmoni’ di umanità in un paese, in un quartiere, in una parrocchia; dovrebbero essere dei ‘santuari’ di umanità dove chi è vecchio e debole viene curato e custodito come un fratello o una sorella maggiore. Fa tanto bene andare a trovare un anziano! Guardate i nostri ragazzi: a volte li vediamo svogliati e tristi; vanno a trovare un anziano, e diventano gioiosi!” e “Quante volte si scartano gli anziani con atteggiamenti di abbandono che sono una vera e propria eutanasia nascosta!”.

Giacomo Seccafien, logopedista, e Filippo Bergamo, Educatore Sociale, Culturale e Territoriale, sono gli autori del volume WANDERING (sottotitolo “Un moto perpetuo ed afinalistico: conoscere, riconoscere e gestire il comportamento dementigeno del vagabondaggio attraverso strategie non farmacologiche”), edito nello scorso mese di gennaio. Parte dell’estratto recita “Per wandering si intende un comportamento di vagabondaggio che può comparire nei pazienti con demenza (soprattutto di tipo Alzheimer, frontale e fronto-temporale). Parliamo di un disturbo del comportamento (BPSD) e tale evidenza non va confusa con un tentativo di fuga, bensì un bisogno difficilmente controllabile di movimento”.

L’impatto delle patologie legate alla demenza è sempre più incisivo, in Italia e nel mondo. Nel Belpaese, complice un tasso di invecchiamento della popolazione molto elevato, il sistema sanitario è posto alla prova, per soddisfare le esigenze di tutti. Il problema ha ripercussioni sociali, relazioni, familiari. Per poter effettuare una diagnosi più precisa possibile, è necessario cogliere tutte le particolarità del disturbo e intervenire con medicinali (ansiolitici e antipsicotici) senza esagerare e inibire, del tutto, i processi cognitivi e le funzioni motorie o addirittura, causare gravi comorbilità e, nei casi più estremi, la morte. Si è cercato anche di ovviare alle cure farmacologiche (attraverso, a esempio, la pet therapy o la musicoterapia) ma i risultati non ne confermano la bontà.

Il wandering rappresenta, per i medici, una fase intermedia della malattia (demenza senile o Alzheimer), in cui il desiderio o il meccanismo di uscire è abbastanza tipico. Si tratta di un’agitazione psicomotoria che dimostra l’intenzionalità del singolo di muoversi e che, nella fase ultima della malattia, complice l’aggravamento, tende a scomparire.

La caratteristica del wandering è di essere una camminata senza un fine. Più che di “passeggiata”, quindi, è opportuno riferirsi al termine “deambulazione” che, tranne i casi in cui si ripercorrono luoghi familiari, è sempre disordinata, senza meta né motivo, un vagare privo di senso e pieno di rischi. La perdita di memoria che, solo a sprazzi, può riaffiorare, senza un seguito, non permette al “fuggitivo” di poter ricostruire il nesso fra la causa e il fine di ciò che sta compiendo.

Il paradosso è che il malato lasci ambienti sicuri e protetti come la casa (in cui ci sono anche familiari), per avventurarsi, in un’irrefrenabile esigenza di movimento, verso luoghi sconosciuti e più pericolosi. La noia è uno degli acceleratori di queste situazioni. Il familiare/caregiver dovrebbe riuscire, pur nelle difficoltà del contesto, a coinvolgere il malato in attività varie, a distrarlo, riempiendo quel vuoto di noia che rappresenta l‘“inizio della fine”. La solitudine è, in questo caso, l’elemento fondamentale: più l’anziano è solo più sono possibili fughe da casa.

Essere soli, è una condizione che si verifica soprattutto d’estate e il paziente, nonostante il caldo notevole e gli inviti a non uscire, non è in grado di discernere e deve, anzi, soddisfare il suo forte impulso a girovagare. Per chi li segue, è importante conciliare: calibrare l’esigenza di camminare (in condizioni sicure) senza tarpare il residuo di indipendenza, di voglia di uscire e incontrare il prossimo. Il rimprovero (per uscite azzardate e improvvise) da parte del familiare o del caregiver, deve essere sempre moderato, per evitare che il malato possa rinunciare del tutto al movimento e aggravare la propria condizione.

Lo scorso 25 maggio, ilsole24ore.com, al link https://alleyoop.ilsole24ore.com/2023/05/25/caregiver-aziende/?refresh_ce=1, ha scritto “In Italia oggi i caregiver sono più di 7 milioni. Tra questi, più di un lavoratore su 3 (il 38%) si occupa di un familiare non autosufficiente, nella maggior parte dei casi personalmente e senza alcun supporto esterno, a fronte di un 33% che si rivolge a strutture o professionisti privati, mentre solo 1 su 4 (il 25%) accede a strutture pubbliche. […] Un’incidenza che non può che essere destinata a crescere in un Paese in cui l’aspettativa di vita si sta progressivamente allungando e dove oggi quasi 1 cittadino su 4 (il 24,1%) ha più di 65 anni […] Il servizio pubblico più utilizzato è l’indennità prevista dalla legge 104, mentre l’accesso alle cure ospedaliere non è più una garanzia del ‘pubblico’ e ormai un cittadino su due (47%) entra come privato. Così come le cure domiciliari attraverso badanti e colf (51%) sono a carico del cittadino, sia da un punto di vista logistico che economico […] Il 17% dei caregiver spende in media oltre 10.000 euro all’anno per l’attività di assistenza e cura, risorse che, in un caso su due, provengono da fondi personali o familiari. Ma i costi non si limitano a quelli ‘monetizzabili’: quasi un caregiver su tre (30%) dedica infatti almeno 14 ore alla settimana alla cura, un impegno che per molti risulta ‘pesante’ o ‘molto pesante’. Le difficoltà maggiormente percepite dai lavoratori caregiver sono soprattutto carico mentale e mancanza di tempo, tanto che il 56% degli intervistati desidererebbe fortemente poter staccare dal lavoro di cura, mentre il 44% sente di aver bisogno di un sostegno psicologico”.

È importante sottolineare la delicata posizione del caregiver familiare che, oltre a subire, con tristezza, il degrado cognitivo del parente, ha l’importante compito di accudirlo e proteggerlo, con un mix di pazienza e autorevolezza. Ciò che capita, in questi “malati di riflesso” è l’incapacità, la difficoltà di accettare che, a esempio, un padre o una madre, possano denotare segni di demenza, quando, solo poco tempo prima, erano consci e presenti. Da questa condizione, inaccettabile, può scaturire una reazione oppositiva e rabbiosa che schernisce o rimprovera le parole, ormai fuori controllo, dei loro cari. Difficile, dunque, mantenere una serenità d’animo e non affossare ulteriormente il soggetto clinico.

Non ci si salva da soli”: pure il caregiver ha bisogno di sostegno da parte di altri, ne hanno necessità anche i medici e gli infermieri che potrebbero sviluppare un disturbo di stress lavorativo (burnout).