Whalewatching: navigando coi giganti

L'osservazione degli animali marini va di pari passo al monitoraggio ambientale. La biologa Alessandra Somà racconta Pelagos, tra meraviglie e ricerca

Whalewatching
Foto di Fernando Gutierrez su Unsplash

L’osservazione dei cetacei e degli altri animali marini è fonte di meraviglia per chi osserva. Ma anche uno strumento rivelatore sullo stato di salute dei nostri mari. E, chiaramente, delle creature che lo abitano. Il Santuario di Pelagos è un’area sottoposta a tutela ormai da oltre trent’anni. Ma questo non basta a renderla del tutto immune agli effetti dell’antropizzazione. E nemmeno dei cambiamenti climatici. Con la possibilità, però, di fornirci indicazioni preziose non solo sulle criticità ma anche sulle possibili soluzioni da adottare. Alessandra Somà, biologa e guida di whalewatching del Consorzio Liguria Via Mare, racconta a Interris.it i segreti del viaggio tra i giganti.

 

Dottoressa Somà, il whalewatching gode di fascino ma non sempre si ha piena contezza della sua importanza…
“Io lavoro come biologa presso il Consorzio Liguria Via Mare e ci occupiamo di escursioni, tra le quali il whalewatching. Copriamo diverse aree, partendo da Genova, Savona, Varazze e Loano. Questo ci consente di vedere specie diverse e avere un’idea più generale ogni anno, con variazioni. Collaboriamo con i ricercatori e, durante le nostre uscite, abbiamo uno scopo divulgativo, spiegare alle persone dove sono, la storia del Santuario Pelagos, che comprende Liguria, Toscana e Nord della Sardegna, un tratto molto ampio che viene tutelato, anche se si potrebbe fare di più”.

L’attività di divulgazione è partecipata tanto quanto quella di scrutamento del mare?
“Spieghiamo alle persone l’importanza della zona, della fauna. Ci occupiamo degli avvistamenti, siamo lì con il binocolo a cercarli. Purtroppo c’è la convinzione che gli animali siano lì fermi ad aspettarci. Quando avvistiamo gli animali li coinvolgiamo, alcuni anche nella ricerca, per poi dare informazioni di tipo biologico, etologico e anche sul comportamento che l’animale sta avendo. Cerchiamo di rendere le persone più partecipi e coinvolte possibile”.

E a livello prettamente scientifico?
“Collaboriamo da tanti anni con vari istituti di ricerca. Facciamo parte di una rete volta alla raccolta di dati per cui, ogni volta che cataloghiamo la specie avvistata e la posizione, nel nostro piccolo riusciamo comunque a contribuire a qualcosa di molto grande. Questi dati ci vengono in parte restituiti, anche se i ricercatori fanno il lavoro”.

Il tema del cambiamento climatico è sempre più al centro del dibattito pubblico. Il riscaldamento globale quanto sta incidendo sui cetacei del Mediterraneo?
“Quest’anno è andata bene, abbiamo visto tanti animali. Purtroppo i cambiamenti climatici ci preoccupano. La temperatura superficiale dell’acqua è sempre più alta. Se a breve termine potrebbe non essere troppo rilevante, sul lungo periodo per gli animali potrebbe essere un problema, in quanto adattati a vivere a una certa temperatura e, fondamentalmente, a difendersi dal freddo. Senza contare che il problema è anche a livello di catena alimentare, con lo sconvolgimento delle correnti, il rimescolamento delle acque”.

Pelagos è un’area sottoposta a tutela. Le disposizioni per la conservazione delle specie hanno raggiunto dei risultati?
“Il Santuario è una zona protetta, nel senso che sono state prese decisioni, a partire dal 1991, per abolire ad esempio le reti derivanti, metodo di pesca impattante sui cetacei e sulle tartarughe. Abbiamo infatti visto, in questi anni, un aumento delle mobule, le mante del Mediterraneo. Noi, infatti, prendiamo dati su tutto ciò che vediamo, così da avere una panoramica più ampia, anche sulle cosiddette ‘specie accessorie’. Nei primi anni in cui facevo whalewatching, di mobule se ne vedevano pochissime. Spesso mi è capitato di non vederne affatto. Dopodiché, probabilmente, questi animali si sono ripresi, in quanto non più uccisi da queste reti. Quest’anno ne abbiamo viste circa 60. Prendendo determinati provvedimenti le cose possono migliorare, anche per i cetacei”.

Quali altri pericoli sono stati rimossi o limitati?
“Le competizioni dei motoscafi ad alta velocità, fortemente impattanti a livello di collisione e inquinamento acustico. Tante cose, invece, purtroppo mantengono un impatto elevati. In quest’area, la pesca è soprattutto locale ma comunque agisce sugli animali come competitor. C’è poi il problema delle grandi navi, sia a livello di collisioni con balenottere e capodogli, sia sul piano dell’inquinamento acustico. E il Mar Ligure è rotta di traghetti, portacontainer… Nelle nostre escursioni, spesso, facciamo avvistamenti e perdiamo l’animale perché siamo in rotta con queste navi, e di conseguenza anche loro”.

Per quanto riguarda la plastiche e altri materiali nocivi?
“Le microplastiche non le percepiamo ma vediamo ciò che c’è in mare. E lanciamo un messaggio alle persone, in quanto in navigazione lenta raccogliamo dei rifiuti per dare un segnale, al fine di contribuire tutti quanti. Mi è capitato di tirar su palloncini, lenze o cime, in cui possono rimanere incastrati cetacei e tartarughe”.

I fattori di squilibrio climatico possono determinare l’aumento nella presenza di specie non autoctone?
“In alcuni casi sì ma non possiamo dire con certezza che ciò sia legato ai cambiamenti climatici. Alcuni anni fa ci fu il caso delle orche di fronte a Genova ma era in inverno e non si è capito cosa fosse successo, probabilmente un errore di rotta. Fu avvistata poi una balena grigia, di origine pacifica, e anche delle megattere, di origine atlantica. Non si sa con certezza, però, se ciò fosse dovuto a un errore dell’animale o ad altre cause. Piuttosto, vediamo specie di uccelli migratori meno comuni e, se dovesse persistere questo caldo, c’è la possibilità che il picco migratorio possa cambiare. Il problema c’è ma c’è anche nel mettere in correlazione tutti i dati”.

Molto più evidenti, invece, le problematiche legate ai grandi natanti…
“Più di una volta c’è capitato di avvistare soffi di capodogli e, aspettando l’animale, ci siamo ritrovati in rotta di collisione con grandi imbarcazioni. Grazie ai nostri avvisi sono riuscite a deviare leggermente la rotta, permettendo ai cetacei di emergere. Tuttavia, il rischio c’è stato. Spesso vediamo animali con evidenti segni di impatto, tra cicatrici, code mozzate, gibbosità dovute a scontri con natanti”.

Le variazioni nel quantitativo di cibo sono episodiche o possono essere determinate da fattori ambientali?
“Alcuni anni fa vedemmo balene molto magre. Probabilmente a causa della scarsità di cibo, nello specifico di plancton. Questo potrebbe essere legato a fattori ambientali, molto dipende dal rimescolamento delle acque. Ci sono annate in cui c’è molto plancton ed altre in cui ce n’è meno. Abbiamo notato animali che sostavano per lunghi periodi in alcune zone, mentre in altre occasioni sparivano dopo pochi giorni, probabilmente perché il cibo era già esaurito. Tali circostanze possono verificarsi periodicamente e dipendere dal cambiamento climatico oppure no”.

Chi viene a bordo con voi cerca l’emozione o c’è un interesse reale per questi animali? Magari per seguire il vostro stesso percorso…
“Le nostre attività sono partecipate da molte persone, italiane e straniere. Soprattutto, però, vengono le scuole, alle quali destiniamo un pacchetto specifico. La maggior parte delle uscite infrasettimanali nel periodo marzo-aprile-maggio sono praticamente occupate solo dalle scuole, vista la tipologia di gita istruttiva. Poi abbiamo convenzioni con delle università italiane, i cui ragazzi, tesisti o tirocinanti, possono sia svolgere delle ore per imparare il lavoro, sia raccogliere dati per la stesura della tesi. Ogni anno abbiamo dai quattro agli otto tirocinanti che vengono a bordo con noi”.