Facta, la tecnologia Made in Italy che “raddoppia la vita” del cuore

A svilupparla è stata la Biocompatibility Innovation, Pmi innovativa di Este (Padova), nata dall'idea di due ricercatori che volevano risolvere un importante problema in campo biomedico

Fonte BioCompataibility Innovation

Nel 2020 circa 450.000 persone tra Europa e USA sono state sottoposte ad un intervento chirurgico di sostituzione valvolare. Le valvole cardiache sono strutture interne al cuore indispensabili  per mantenere la corretta e fisiologica circolazione del sangue. Ad oggi esistono due tipi di protesi valvolari, le meccaniche e le biologiche queste ultime realizzate con tessuti di origine animale. L’80% circa degli interventi di sostituzione valvolare sono effettuati utilizzando protesi di tipo biologico. Le bioprotesi valvolari sono quindi dispositivi medici indispensabili per la vita che, tuttavia, non sono esenti da complicazioni. Prima fra tutte, una incompleta biocompatibilità tra il materiale che li costituisce e il corpo umano in cui vengono inserite, per terminare con l’innesco di processi degenerativi a carico delle protesi stesse e che costringono i pazienti a ripetuti interventi.

L’invecchiamento della popolazione, si stima che entro il 2050 le persone con più di 60 anni raddoppieranno arrivando a essere 2,1 miliardi, è associato ad un potenziale aumento delle patologie cardiovascolari dovute ad alcuni comportamenti e stili di vita. Si prevede che il numero di interventi per sostituzioni valvolari supererà nel 2050 il milione di casi.

L’impianto di una protesi cardiaca significa molte cose: un’operazione, un periodo di terapia riabilitativa, un maggior bisogno di attenzione e aiuto per il malato da parte della sua famiglia, una minore produttività lavorativa per un certo tempo. Tutto questo ha dei costi, che sono stimati – per quanto riguarda almeno la parte del mondo che comprende Europa e USA – intorno ai 14 miliardi di euro/anno.

Una società italiana, la BioCompatibility Innovation di Este (Padova), ha sviluppato una tecnologia che può garantire una migliore qualità della vita a quelle persone che sono in procinto di subire un intervento di sostituzione valvolare cardiaca mediante bioprotesi e, nel contempo, aiutare a “risparmiare” circa il 25% di quei 14 miliardi di costi sociali e sanitari. InTerris ne ha parlato con Filippo Naso, fondatore di BCI e attuale responsabile del settore Ricerca sviluppo e innovazione (CTIO), con alle spalle anni di ricerca nel campo della medicina rigenerativa e dell’ingegneria dei tessuti.

L’intervista

Qual è la storia della BCI?

BioCompatibility Innovation è nata come startup nel 2014 da una idea condivisa tra me, che fungo da responsabile del settore Ricerca sviluppo e innovazione, e Alessandro Gandaglia il nostro amministratore delegato. Dopo una decina di anni trascorsi insieme a fare ricerca a livello universitario nel campo della medicina rigenerativa e dell’ingegneria dei tessuti in ambito cardiovascolare presso l’ospedale di Padova, le nostre strade si sono divise. Io ho continuato a fare ricerca, mentre Alessandro ha avuto importanti esperienze di tipo aziendale. Ci siamo ritrovati qualche anno dopo con un’idea: sviluppare una tecnologia efficace per migliorare la biocompatibilità dei tessuti animali utilizzati nella produzione di bioprotesi. In particolare, le valvole cardiache. Si tratta di un problema molto attuale in ambito biomedico e tutt’ora senza alcuna significativa soluzione.

Alessandro Gandaglia, Ceo della BCI, e Filippo Naso, responsabile del settore Ricerca sviluppo e innovazione
Fonte BioCompatility Innovation

Ce lo può illustrare?

Le protesi valvolari di tipo biologico sono prodotte con tessuti di origine animale, in particolare con pericardio bovino – una sorta di “sacco” che riveste il cuore. Questo viene ad essere appositamente sagomato e suturato su di un supporto al fine di ricreare i tre lembi della valvola. Ad oggi, i trattamenti applicati alla bioprotesi da parte dei produttori per evitare il rigetto iperacuto – che ci sarebbe se il materiale venisse inserito così com’è – non sono sufficienti a nascondere in maniera efficace delle molecole proprie del tessuto animale chiamate antigeni, molecole che il nostro organismo umano rileva come estranee e verso cui attiva delle reazioni di tipo immunologico volte alla loro eliminazione. La più “dirompente” si chiama alpha-Gal, ne esistono anche altre che hanno un impatto minore e la cui capacità infiammatoria è mascherata dall’effetto esplosivo proprio dell’alpha-Gal. Come accennato poco fa, la risposta immunitaria verso gli antigeni animali non genera un rigetto, ma piuttosto uno stato infiammatorio moderato e costante che innesca processi infiammatori e degenerativi responsabili di modificare la valvola a tal punto da farla divenire calcifica dopo dieci o dodici anni. La calcificazione è un processo caratterizzato dalla deposizione di cristalli di calcio che irrigidiscono la struttura valvolare compromettendo irrimediabilmente la capacità della bioprotesi di aprirsi e chiudersi. La valvola diventa quindi una fonte di resistenza al fluire del flusso sanguigno (stenosi), influendo di riflesso sulla capacità di pompa del cuore e generando una serie di altri scompensi.

Tornando alla storia di BCI, chi è stato il primo a credere nella vostra startup?

Il primo a capire l’utilità e anche la ricaduta sociale del nostro progetto è stato un medico, Ugo Stefanelli, che è diventato il nostro primo finanziatore ed attuale Presidente di BCI. Grazie al suo supporto siamo riusciti a partire con questa avventura, costituendo la società e allestendo il laboratorio di ricerca. Nati come una start up in un ambito di ricerca molto dispendioso, in cinque anni – un limite temporale che molte startup faticano a superare ­– siamo riusciti a diventare una Pmi innovativa.

Come si evince anche dal nome della vostra società, vi occupate di biocompatibilità. Cos’è la biocompatibilità?

E’ la caratteristica di un materiale di essere accettato, da parte del corpo umano, senza generare reazioni avverse né degenerazioni che ne compromettano l’utilità o la funzione a cui è destinato. E’ un aspetto che interessa qualsiasi materiale venga inserito o posto a contatto con il corpo umano, sia protesi di origine biologica sia medical devices di origine sintetica.

Cos’è Facta®?

Si tratta di un marchio registrato che identifica una tecnologia brevettata e sviluppata da BCI che, applicata a tessuti valvolari cardiaci, è in grado di prolungarne la durata. La limitata biocompatibilità del materiale di origine animale con cui sono realizzate le protesi valvolari di tipo biologico è responsabile dell’innesco di una serie di degenerazioni a carico delle bioprotesi stesse che costringono il paziente a sostituirle dopo dieci o 12 anni.

Questo riguarda tutti?

In generale il tempo di durata di un bioprotesi valvolare cardiaca è inversamente proporzionale con l’età del paziente. Se nei pazienti che hanno dai 60 anni in su la durata media si attesta per il 50% delle bioprotesi impiantate attorno ai 10/12 anni, per i più giovani, intorno ai 40 anni, tutte le bioprotesi valvolari impiantate non superano gli 8/10 anni; sotto i 40 anni invece durano mediamente solo 5 anni. Considerando che un paziente nell’arco della propria vita può essere sottoposto al massimo a due o tre interventi di sostituzione valvolare, emerge come la limitata durata delle attuali bioprotesi (soprattutto per i pazienti giovani) non influisce solo sulla qualità di vita, ma incide significativamente e drammaticamente anche sull’aspettativa di vita del paziente.

Come si riescono ad ottenere questi due risultati, ridurre la degenerazione delle valvole e prolungarne la durata?

Con Facta® andiamo ad agire sulle molecole di origine animale di cui abbiamo parlato in precedenza, nascondendole. Così l’organismo si trova a non identificare più nulla di estraneo, non attiva nessuna risposta immunitaria e si preserva la valvola dalle degenerazioni. Il percorso sperimentale è lungo e in continua evoluzione. Siamo partiti dall’idea di rendere le bioprotesi più biocompatibili modulando il riconoscimento di queste molecole animali, poi durante il percorso sperimentale, ci siamo accorti di come la nostra tecnologia fosse in grado di garantire altre migliorie, oltre alla mascheratura di questi antigeni. Migliorie che garantiscono alla valvola trattata un significativo effetto antitrombotico (impedisce cioè che si formino coaguli di sangue sulla superficie dei lembi), antibatterico (che evita lo sviluppo di endocarditi) e infine un miglioramento delle proprietà meccaniche.

Quali sono gli effetti che questa tecnologia produce, in termini sanitari, di salute e di spesa?

Il malato a cui bisogna risostituire una bioprotesi valvolare affronta una serie di costi ad ogni intervento. Innanzitutto, il costo dei dispositivi: le valvole tradizionali che si impiantano tramite apertura del torace costano alle strutture ospedaliere circa duemila euro, mentre le più moderne, chiamate transcatetere (vengono compresse e inserite attraverso un grande vaso come l’arteria femorale e guidate fino al cuore dove vengono espanse con un palloncino) costano mediamente dai 13 ai 18mila euro a valvola, alcuni modelli anche oltre i 20mila euro. Al costo della valvola si devono poi aggiungere quelli dell’operazione, della terapia riabilitativa del paziente e infine il costo del paziente verso la collettività. Tutto questo è stimato corrispondere a una cifra di circa 14 miliardi all’anno (Europa e USA). La nostra tecnologia potrebbe andare a incidere in maniera significativa, abbiamo stimato che la sua introduzione sul mercato potrebbe garantire un contenimento del 25-30% delle spese sopra menzionate.

Come?

Ad oggi queste valvole biologiche vengono impiantate in pazienti dai sessant’anni in su, perché nei pazienti più giovani – con poche eccezioni – durano meno. Così questi pazienti sono curati con valvole di tipo meccanico, costituite da leghe di metallo specifiche. L’effetto collaterale è che non essendo di origine biologica, la superficie della valvola meccanica è sempre “vista” come estranea dal corpo e tende a formare trombi. Per evitare questo drammatico effetto, coloro ai quali viene impiantata una valvola meccanica, devono seguire una pesante terapia anticoagulante per tutto il resto della loro vita. L’introduzione della tecnologia Facta® potrebbe potenzialmente aprire il mercato dei sostituti valvolari di tipo biologico anche a questa tipologia di pazienti, garantendo loro una qualità di vita migliore. Siamo una srl, ma avendo vissuto la ricerca negli ospedali abbiamo potuto entrare in contatto con le situazioni dei pazienti, con i loro problemi e le loro paure. Per questo in azienda è rimasta una chiave etica molto forte, un aspetto molto importante che riteniamo fondamentale continuare ad alimentare e trasmettere ai nostri collaboratori.

 Quanto tempo avete lavorato su questa tecnologia?

Premetto una cosa. BioCompatibility Innovation non fa protesi, non produce prodotti finiti. BCI elabora e concretizza tecnologie che vengono testate e che poi verranno acquisite all’interno di processi di produzione dalle aziende che le vorranno applicare. La fase di ricerca su Facta® può essere considerata conclusa: abbiamo delle evidenze sperimentali, dati solidi e riproducibili, che confermano come questa tecnologia sia in grado di raggiungere il suo obiettivo, cioè raddoppiare la durata di queste valvole. Poi una volta che un’azienda troverà interessante questa tecnologia e la vorrà applicare dovrà ripetere una serie di test sul prodotto finito, quello che sarà definitivamente autorizzato per la vendita. Attualmente siamo in contatto con i maggiori produttori di bioprotesi valvolari a livello mondiale e abbiamo avuto diverse validazioni. Nel momento in cui una di queste decida di applicare la tecnologia, in un paio d’anni potrebbe  essere presente sul mercato una bioprotesi valvolare altamente biocompatibile. Questo perché le valvole cardiache sono classificate come dispositivi medici impiantabili di classe tre in quanto vengono inserite all’interno dell’organismo per un lungo periodo tempo. Per poter accedere al mercato e quindi essere utilizzabili in ambito clinico, sono soggette ad uno stringente iter regolatorio che, in caso positivo, si conclude con il rilascio dell’autorizzazione alla vendita. Ogni volta che un nuovo prodotto entra nel mercato, deve essere aperto un nuovo dossier autorizzativo, il che significa una decina d’anni di sperimentazione a diversi livelli in-vitro, in-vivo, pre-clinica e clinica oltre ad importanti costi da sostenere. La tecnologia Facta® può essere considerata come una minima manipolazione, e quindi è potenzialmente applicabile ad un dispositivo biomedico già presente sul mercato (che ha già quindi il suo dossier e la sua autorizzazione alla vendita), con un aggiornamento del dossier. Nel giro di sei mesi/un anno si può ottenere l’autorizzazione alla vendita, dopodiché l’azienda dovrà organizzare la filiera produttiva per inserire il trattamento aggiuntivo, fase che richiede circa un altro anno.

Quali sono i prossimi sviluppi della vostra azienda?

Alla base di tutte le tecnologie sviluppate e in fase di sviluppo in BCI, c’è una piattaforma tecnologica costituta da know-how, brevetti e competenze volte al miglioramento della biocompatibilità di medical device impiantabili. In particolare, BCI ha una significativa expertise nell’utilizzo di miscele a base di polifenoli, molecole di origine animale altamente duttili e in grado di interagire stabilmente con diversi tipi di supporti. Facta® può essere considerata come la prima declinazione tecnologica di questa piattaforma chiamata LOPP (Leading Open Polyphenols Platform). Attualmente BCI sta testando analoghi trattamenti per il miglioramento della biocompatibilità di medical device costituiti da materiale non biologico con incoraggianti dati preliminari e interessanti collaborazioni con aziende di vari settori biomedicali.