Padrin: “Disastro del Vajont, l’uomo ha messo il profitto davanti a tutto”

Nel sessantesimo anniversario del disastro della diga del Vajont, Interris.it ha intervistato il sindaco di Longarone e presidente della Fondazione Vajont 9 ottobre 1963 Onlus Roberto Padrin

per gentile concessione della Fondazione Vajont 9 ottobre 1963 Onlus

La sera del 9 ottobre di sessant’anni fa sono stati sufficienti quattro minuti perché Longarone e altri centri abitati limitrofi, nel bellunese, venissero pressoché rasi al suolo dallo spostamento d’aria e dalla massa d’acqua che dalla diga del Vajont si riversava in quel tratto di valle del Piave, dopo che una frana si era staccata dal Monte Toc ed era caduta nel bacino artificiale, facendolo tracimare. L’opera d’ingegneria era praticamente intatta, intorno a lei c’era una tale distruzione che l’articolo di Giampaolo Pansa, inviato speciale, pubblicato su La Stampa l’11 ottobre 1963 iniziava così: “Vi scrivo da un paese che non esiste più”. Alcuni anni dopo, nel 1971, il processo stabilì la responsabilità umana e la prevedibilità del disastro in cui persero la vita 1.910 persone, 1.450 nella sola Longarone. A distanza di quattro decenni dalla sentenza è stata istituita Giornata nazionale in memoria delle vittime dei disastri ambientali e industriali causati dall’incuria dell’uomo, solennità civile che si osserva proprio il 9 ottobre.

Il disastro

La diga era stata costruita tra il 1957 e il 1959 dalla Società adriatica elettrica italiana (Sade), funzionale alla produzione di energia idroelettrica in quella parte di Nord-Est del Paese, e nel 1960 erano cominciate le prove d’invaso, i collaudi con l’immissione e l’estrazione di acqua. Nel 1959 una frana precipitò nella diga di Pontesei, anch’essa della Sade, e nell’incidente morì il sorvegliante. A differenza di altri studi compiuti in quel periodo, un’indagine geologica sul versante nord della diga del Vajont ipotizzò la presenza di una paleofrana, un antico spostamento. Nel novembre del 1960 uno smottamento cadde dal Toc nel bacino e si procedette allo svaso controllato, a seguito del quale i movimenti franosi rallentarono. Successivamente si proseguì con le prove di invaso e i movimenti ripresero. Tre anni dopo, alle 22.39 del 9 ottobre 1963, una frana con una massa di 270 milioni di metri cubi si staccò dal versante settentrionale della montagna, precipitando nel lago artificiale e generando onde che si sollevarono, superando la diga, e si abbatterono sia sulle sponde dello specchio d’acqua che sul fondovalle, inondandolo. Alle 22:43 Longarone fu colpita, insieme a PiragoMaèRivalta e VillanovaFrasègnCol delle SpesseIl CristoPinedaCevaPradaMarzanaSan Martino, Faè e la parte bassa di Erto. Circa quattro minuti per fare quasi duemila vittime.

L’intervista

A sessant’anni dalla tragedia, Interris.it ha intervistato il sindaco di Longarone e presidente della Fondazione Vajont 9 ottobre 1963 Onlus Roberto Padrin.

Cos’ha significato il disastro del Vajont?

“Si tratta di una delle pagine più tristi, di cui l’uomo è l’unico responsabile perché ha scelto di mettere il profitto davanti a tutto e a tutti. Per una serie di errori, di fronte a diversi segnali non si è evacuato nessuno, finendo per piangere la morte di 1.910 persone. La nostra comunità è stata divelta, strappata dalla radice, ma i superstiti e i sopravvissuti che sono rimasti hanno voluto ricostruirla lì dov’era prima. La rinascita di Longarone è stata supportata nell’immediato dalla solidarietà dei soccorritori e successivamente dagli aiuti finanziari. Oggi la nostra città ha due anime, quella di chi è rimasto e quella di chi è arrivato dopo l’entrata in vigore della ‘legge Vajont’, che prevedeva incentivi economici e agevolazioni fiscali a chi si insediava in questa terra”.

Che posto era Longarone, prima della sera di quel 9 ottobre 1963?

“Una terra di emigrazione, un luogo di passaggio che ha saputo diventare zona industriale. C’erano una cartiera, alcune fabbriche, delle imprese di legname. Oggi le due anime, il ‘cuore storico’ che è legato alla propria storia e chi è venuto dopo, si sono integrate. Nel 2014 c’è stata la fusione con il vicino comune di Castellavazzo e questo ha ulteriormente rafforzato la comunità”.

Come si è evoluto il rapporto di Longarone con la memoria?

“Per molti anni la maggioranza dei superstiti e dei sopravvissuti si è tenuta questa storia dentro di sé, c’è stato chi non l’ha raccontata nemmeno ai propri figli. In seguito, prima il monologo teatrale ‘Vajont 9 Ottobre ‘63 – Orazione civile’ di Marco Paolini e poi il film ‘Vajont’ di Renzo Martinelli hanno toccato l’animo delle persone e svegliato in loro l’impegno a raccontare. La memoria da individuale è diventata collettiva. L’elaborazione del lutto è una cosa personale, soggettiva, ma tutti i longaronesi sono voluti ripartire dalle proprie radici, seppur spezzate, per diventare un esempio per tante altre comunità colpite da tragedie. Uno dei miei maestri, Gianni Olivier, che abbiamo perso lo scorso anno, ha fatto tantissimo per la memoria del disastro. Si è impegnato per recuperare i nomi delle vittime, anche quelle mai più ritrovate”.

A lei quando e com’è stato raccontato quello che era successo?

“Io sono nato dopo la tragedia – mio padre lavorava alla stazione di Longarone e ci è tornato dopo la naja perché voleva aiutare a ricostruire – e la prima volta che ho sentito parlare del Vajont è stato al mio primo giorno di elementari. La scuola è un importante veicolo per la memoria perché si rivolge ai giovani, che hanno lo sguardo volto al futuro”.

Come nasce la Fondazione Vajont 9 ottobre 1963 Onlus e con quali obiettivi?

“E’ un percorso iniziato nel 1999, con l’accordo transattivo tra la Società Edison Spa e il Comune di Longarone, in cui la prima riconosceva al secondo la cifra di 77 miliardi di lire per danni morali e patrimoniali, una parte dei quali venne destinata alla fondazione per perpetuare la memoria del disastro. Nel 2003 si è costituita la Fondazione, a cui si sono uniti anche Regione Veneto e Società Enel Produzione Spa. Da alcuni anni cerchiamo di organizzare dei corsi per la creazione di nuovi informatori della memoria, i nostri volontari, perché per i superstiti e i sopravvissuti passano gli anni e alcuni di loro sono scomparsi. Ci servono nuove figure, più giovani, che sappiano raccontare cos’è stato il disastro del Vajont anche se non lo hanno vissuto sulla propria pelle”.

L’archivio processuale del disastro è stato iscritto nel Registro internazionale del Programma UNESCO “Memory of the World”. Cosa significa questo riconoscimento?

“Dà valore a un documento che rappresenta la storia completa di quello che è successo sessant’anni fa. Il fondo processuale era conservato a L’Aquila, dove si era svolto il procedimento giudiziario, ma dopo il terremoto del 2009 è stato trasferito all’archivio di Stato di Belluno dove lo abbiamo digitalizzato. Grazie all’Associazione culturale Tina Merlin e alla sua vicepresidente Irma Visalli, presidente del Comitato scientifico della Fondazione, abbiamo poi avanzato la richiesta all’Unesco. La legge però dispone che le carte debbano tornare nel luogo dove si è tenuto il processo. Per farli rimanere qui serve un decreto del Ministero della cultura, competente per la pratica”.

“E’ tempo di imparare qualcosa”, scriveva la giornalista Tina Merlin all’indomani della tragedia. Quasi 50 anni dopo la Repubblica italiana ha riconosciuto il 9 ottobre come “Giornata nazionale in memoria delle vittime dei disastri ambientali e industriali causati dall’incuria dell’uomo”. Abbiamo imparato qualcosa?

“E’ una giornata che forse non mai ha ricevuto troppa visibilità dal punto di vista mediatico, spero che quest’anno con la visita del presidente della Repubblica Sergio Mattarella ne possa avere di più. Avere una solennità civile come questa è importante perché è un momento in cui si ricordano questo e altri tristi eventi”.