Il popolo di Dio al centro del Magistero

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Il “popolo di Dio” è il tema fondante di tutto il Concilio Vaticano e, in particolare, della Lumen Gentium, una delle quattro “Costituzioni” conciliari (le altre sono la Sacrosanctum Concilium, sulla liturgia, la Dei Verbum, sulla Bibbia e la Gaudium et Spes sulla Chiesa nel mondo moderno). Su questo tema si innestano sia le altre costituzioni, sia in generale l’aggiornamento tutta la visione ecclesiale. Come già nell’Antico Testamento la rivelazione del regno viene spesso proposta in figure, così anche ora l’intima natura della Chiesa si fa conoscere attraverso immagini varie, desunte sia dalla vita pastorale o agricola, sia dalla costruzione di edifici o anche dalla famiglia e dagli sponsali, e che si trovano già abbozzate nei libri dei profeti. La Chiesa infatti è un ovile, la cui porta unica e necessaria è Cristo (cfr. Gv 10,1-10). È pure un gregge, di cui Dio stesso ha preannunziato che ne sarebbe il pastore (cfr. Is 40,11; Ez 34,11 ss), e le cui pecore, anche se governate da pastori umani, sono però incessantemente condotte al pascolo e nutrite dallo stesso Cristo, il buon Pastore e principe dei pastori (cfr. Gv 10,11; 1 Pt 5,4), il quale ha dato la vita per le pecore (cfr. Gv 10,11-15).

Con la costituzione “Lumen gentium”, cambiava l’immagine della Chiesa, presentata ora come segno di salvezza, anziché fondamentalmente come istituzione; popolo di Dio, prima che gerarchia; collegialità episcopale, invece che solo un Papa monarca. La parola di Dio tornava al centro della vita cristiana, e la Bibbia non era più tabù per i credenti. La liturgia aveva rivisto i suoi riti, i suoi gesti, le sue parole. L’altra grande costituzione, “Gaudium et spes”, sanzionava il ritorno definitivo della Chiesa tra gli uomini, e, al tempo stesso, la presa d’atto della legittima autonomia delle realtà temporali, e l’ammissione di avere qualcosa da apprendere dall’impegno dell’uomo, dai progressi scientifici. Una Chiesa, adesso, evangelicamente libera da compromissioni mondane; e che si esprimeva in maniera nuova, coraggiosa, aperta, sulla famiglia, la cultura, la giustizia, la guerra e la pace. Una rivoluzione, appunto.

Senza stravolgere la Tradizione e il magistero precedente, ma anche con una serie di evidenti rotture con il passato. Non altrimenti potevano considerarsi le parole relative alla cancellazione del deicidio, imputato per duemila anni al popolo ebraico. Così come le parole della “Dignitatis humanae” sulla libertà di coscienza. Condannata ripetutamente dai Papi, da Gregorio XVI a Pio IX, o al massimo tollerata con argomentazioni ai limiti dell’ipocrisia; e ora, invece, proclamata – prima ancora che alla luce della divina Rivelazione – a partire dalla dignità della persona umana, ossia da quella verità fondamentale, propria di ogni uomo, che è il diritto naturale, sul quale si basa tutto l’ordine socio-giuridico.

Così, veniva radicalmente modificato l’atteggiamento della Chiesa – dopo le condanne del passato – nei confronti della democrazia, degli Stati liberali, della secolarità della vita politica, del pluralismo delle scelte e delle responsabilità proprie dei credenti in questo campo. Così come veniva esaltata la dignità del laico cristiano, la sua appartenenza a pieno titolo alla Chiesa, alla missione evangelizzatrice. Di più, si affermava che la vocazione cristiana del laico deve realizzarsi anzitutto nell’esercizio quotidiano della propria “indole secolare”. In sostanza, per la prima volta un Concilio dichiarava solennemente essere la laicità una dimensione propria del cristianesimo.

Ebbene, riconosciuta la centralità della coscienza nell’agire morale, la Chiesa veniva conseguentemente richiamata a uno dei suoi compiti primari, quello di formare le coscienze, e non più pretendere di sostituirle, di modellarle a propria immagine e somiglianza. Di conseguenza, adesso sì che sarebbe stata possibile una svolta. Per un verso, rimediare finalmente a una religiosità mai maturata, ferma per lo più alle nozioni elementari del catechismo, attenta solo al “rispetto” delle norme, delle regole, dei precetti, con il risultato di una dicotomia profonda tra fede e vita. E, contemporaneamente, favorire la crescita di una religiosità nel segno della responsabilità, dell’impegno nei vari campi temporali, e di una identità che – senza naturalmente rivendicare una diversità, o se non peggio una “superiorità” – arrivasse a dimostrare come la fede cristiana sia qualcosa di connaturale all’essere umano. Dunque, c’erano tutte le premesse, dopo l’”esplosione” evangelica del Concilio Vaticano II, per un cambio radicale nel come professare la fede, e, a più forte ragione, nel come testimoniarla in un mondo sempre più lontano da Dio e dai valori cristiani.