La bioetica come frontiera di civiltà

Foto di Marcel Fagin su Unsplash

Papa Francesco in un messaggio rivolto ai partecipanti al Meeting Regionale Europeo della World Medical Association sulle questioni del cosiddetto “fine-vita”, dopo aver raccomandato di trattare con delicatezza questa complessa problematica, ha detto che “È moralmente lecito rinunciare all’applicazione di mezzi terapeutici, o sospenderli, quando il loro impiego non corrisponde a quel criterio etico e umanistico che verrà in seguito definito “proporzionalità delle cure”. Questa posizione consente quindi di giungere a una decisione che si qualifica moralmente come rinuncia all’“accanimento terapeutico”. Ed ha aggiunto: “Non attivare mezzi sproporzionati o sospenderne l’uso, equivale a evitare l’accanimento terapeutico, cioè compiere un’azione che ha un significato etico completamente diverso dall’eutanasia, che rimane sempre illecita, in quanto si propone di interrompere la vita, procurando la morte. Sappiamo che della malattia non possiamo sempre garantire la guarigione della persona vivente possiamo e dobbiamo sempre prenderci cura: senza abbreviare noi stessi la sua vita, ma anche senza accanirci inutilmente contro la sua morte. In questa linea si muove la medicina palliativa. Essa riveste una grande importanza anche sul piano culturale, impegnandosi a combattere tutto ciò che rende il morire più angoscioso e sofferto, ossia il dolore e la solitudine”.

Non si vuole così procurare la morte: si accetta di non poterla impedire”, come specifica il Catechismo della Chiesa Cattolica (n. 2278). Questa differenza di prospettiva restituisce umanità all’accompagnamento del morire, senza aprire giustificazioni alla soppressione del vivere. Il magistero della Chiesa, di fronte a dilemmi morali e alla responsabilità della politica ricorda che se la pubblica autorità può talvolta rinunciare a reprimere quanto provocherebbe, se proibito, un danno più grave, essa non può mai accettare, però, di legittimare come diritto dei singoli – anche se questi fossero la maggioranza dei membri, la società-, l’offesa inferta ad altre persone attraverso il misconoscimento di un loro diritto così fondamentale come quello alla vita. L’uso di analgesici per alleviare le sofferenze del moribondo, anche con il rischio di abbreviare i suoi giorni, può essere moralmente conforme alla dignità umana, se la morte non è voluta né come fine né come mezzo, ma è soltanto prevista e tollerata come inevitabile. Dopo la legge 219 del 2017, la Conferenza episcopale italiana aveva proposto al Parlamento di ridurre le pene senza depenalizzare il gesto.

Nel comunicato finale del 26 settembre 2019, si legge che “i vescovi hanno unito la loro voce a quella di tante associazioni laicali nell’esprimere la preoccupazione a fronte di scelte destinate a provocare profonde conseguenze sul piano culturale e sociale”. Consapevoli di quanto il tema si presti a strumentalizzazioni ideologiche, si sono messi in ascolto delle paure che lacerano le persone davanti alla realtà di una malattia grave e della sofferenza”. Nel comunicato si rileva che “alla Chiesa sta a cuore la dignità della persona, per cui i Pastori non si sono soffermati soltanto sulla negazione del diritto al suicidio, ma hanno rilanciato l’impegno a continuare e a rafforzare l’attenzione e la presenza nei confronti dei malati terminali e dei loro familiari. Tale prossimità, mentre contrasta la solitudine e l’abbandono, promuove una sensibilizzazione sul valore della vita come dono e responsabilità; cura l’educazione e la formazione di quanti operano in strutture sanitarie d’ispirazione cristiana; rivendica la possibilità di esercitare l’obiezione di coscienza, rispetto a chi chiedesse di essere aiutato a morire; sostiene il senso della professione medica, alla quale è affidato il compito di servire la vita”.

Don Massimo Angelelli, direttore dell’Ufficio nazionale per la pastorale della salute, invita a riflettere sul rapporto tra sofferenza e libertà di scelta: “Le persone che si trovano in stato di sofferenza vivono una condizione psicologica di grande fragilità e questa condizione smonta il presupposto della sentenza, che è la libertà di scelta del paziente”.  Don Angelelli precisa anche che l’ammalato “che soffre, non è libero, bensì esposto più di tutti alla convinzione di essere un peso e che terminare la vita sia una soluzione”. Quello che riceve meno attenzioni è il dolore psicologico e spirituale, che, infatti, è in primo piano nella missione degli hospice. La mancanza di risposta a questo problema è decisiva, perché la decisione di scegliere di morire difficilmente matura in un ambito di dolore fisico, ma deriva da una sofferenza morale e psicologica”. L’orizzonte antropologico per rispondere alla cultura del suicidio assistito deve essere quello della solidarietà e dell’aiuto concreto e possibile, che va oltre ogni principio.

I problemi della fine della vita invitano a riflettere sul fine ultimo e sul senso della vita e sulla sua tutela sotto vari punti vista: medico, giuridico, filosofico, morale, religioso. La difesa della vita è un valore umano in sé, che riguarda tutti e non solo gli appartenenti alle varie confessioni religiose, che hanno il diritto-dovere di esplicitare le proprie posizioni, come  è avvenuto lo scorso 28 ottobre con la Dichiarazione congiunta delle religioni monoteistiche abramitiche sulle problematiche del fine vita, frutto del dialogo fra i rappresentanti dell’Islam, dell’Ebraismo e della Chiesa cattolica, in cui c’è il rifiuto dell’eutanasia e del suicidio medicalmente assistito. Nell’attuale dibattito le questioni legate alla fine della vita suscitano accesi contrasti nella nostra società laica, caratterizzata da un forte pluralismo morale, ma è necessario e procedere sulla linea del dialogo per contribuire alla ricerca di soluzioni per quanto possibile condivise.

Queste varie posizioni si sono già manifestate in occasione della legge 219 del 2017 sulle disposizioni anticipate di trattamento (Dat). Secondo un orientamento la legge avrebbe dovuto riconoscere esplicitamente il diritto di morire e la liceità dell’aiuto di un terzo a chi vuole, ma non è in grado di esercitarlo autonomamente; mentre secondo un altro orientamento, quella legge ha posto le premesse della “china scivolosa” e ha dato uno stimolo a percorrerla, sino a giungere di consentire in alcuni paesi, a strutture imprenditoriali organizzate, ispirate alla logica del profitto ben più che a quella della solidarietà, di offrire una “dolce morte a pagamento”. I dibattiti sui problemi della fine della vita si sono moltiplicati negli ultimi anni a causa dei progressi scientifico-tecnologici, che rendono possibile una prolungata sopravvivenza accompagnata da sofferenze fisiche e psichiche. Ci troviamo di fronte a un fenomeno relativamente nuovo, che richiede una riflessione etica più approfondita in quando i principi morali e giuridici, che ereditiamo dal passato, non sono pienamente adeguati. Certamente il patrimonio della riflessione etica e giuridica di carattere umanistico mantiene il suo valore, ma la sua applicazione non può avvenire in maniera automatica. Occorre capire quale sia la maniera per tutelare, nella nuova situazione, quei valori che la tradizione ci consegna. Serve dunque un processo collettivo di riflessione, che chiama in causa, in maniera diversa, una pluralità di soggetti.