Quando un Papa chiede perdono. I “mea culpa” di Karol Wojtyla

Il significato dei "mea culpa" di San Giovanni Paolo nella testimonianza a Interris.it del suo amico e collaboratore Gianfranco Svidercoschi, decano dei vaticanisti

Francesco

“Papa Wojtyla sapeva bene che il cammino che aveva scelto sarebbe stato lastricato di ostacoli e di incomprensioni”, spiega a Interris.it il suo amico e collaboratore Gianfranco Svidercoschi, decano dei vaticanisti. San Giovanni Paolo II era pienamente consapevole “che avrebbe suscitato inevitabilmente un certo malessere in non pochi credenti. Disorientati di fronte alla prospettiva– erronea, certo, ma più che
comprensibile– che la storia della Chiesa non fosse altro che una serie ininterrotta di colpe, di ombre oscure. E molto probabilmente, proprio a motivo di queste preoccupazioni, Giovanni Paolo II decise di percorrere la strada dei ‘mea culpa’, come vennero poi chiamati, sostanzialmente da solo“, evidenzia Svidercoschi.

La strategia missionaria dei “mea culpa”

In realtà –e lo si notò anche in altre situazioni– era la sua “strategia” missionaria, il suo modo di procedere. Trattandosi di terreni nuovi, inesplorati, non ancora battuti, e quindi per non coinvolgervi l’intera Chiesa, il Papa sentiva di dover andare avanti da solo. Facendo da apripista. E mettendo in conto, se le cose fossero andate male, di pagarne le conseguenze. “Era tipico di lui. Avuta un’idea, una intuizione, di non farne immediatamente un programma di governo– precisa Svidercoschi-. Ma di verificarle nel corso delle occasioni che gli si presentavano”. Una di queste occasioni, all’inizio, fu la visita di Giovanni Paolo II nell’allora Cecoslovacchia. C’era una bruttissima storia, vecchia di secoli. Ma che continuava ad inasprire i rapporti tra cattolici e protestanti, e a infoltire le file degli atei, degli agnostici. Giovanni Hus, un sacerdote boemo di tendenze riformiste, antesignano di Lutero, era stato invitato al Concilio di Costanza. Rifiutatosi di ritrattare le proprie idee, era stato bruciato vivo il 6 luglio del 1415.

Revisione storica

“Papa Wojtyla capì subito il problema– rievoca Svidercoschi-. E, nel chiedere perdono, si impegnò pubblicamente– come poi ha fatto– a una revisione storica di quella tragica vicenda”. E poi la Grecia, un altro degli episodi più emblematici. L’invito
al Papa era arrivato dalle autorità dello Stato. Mentre i vescovi ortodossi non riuscivano neppure a nascondere la loro contrarietà. Andato in avanscoperta, come sempre, l’organizzatore dei viaggi pontifici, il padre Roberto Tucci, al ritorno aveva riferito a Wojtyla di avere scovato il perché di quell’atteggiamento ostile. Era per
via del “sacco di Costantinopoli”, consumato dai cristiani latini durante la quarta Crociata, nel 1204. Era passata una eternità, ma ancora bruciava il ricordo di quell’atto barbarico. Così, previsto ovviamente un incontro, anche se sulla carta molto formale, con i vescovi ortodossi, Giovanni Paolo II, improvvisando nel corso del suo discorso, aveva chiesto perdono per l’orrendo massacro compiuto dai crociati.
Un autentico shock. “Il patriarca aveva strabuzzato gli occhi, i vescovi sembravano tutti basiti. E alla fine, riconciliati, commossi,  avevano pregato tutti insieme. Il Papa e i membri della gerarchia ortodossa”, ricorda Svidercoschi.