Myanmar, padre Cervellera: “I cristiani chiedono la fine della dittatura militare”

La foto simbolo di una suora inginocchiata davanti ai militari per chiedere che non si apra il fuoco sui manifestanti

Una suora inginocchiata davanti alla polizia in tenuta antisommossa a Myitkyina supplica gli agenti di non sparare sui manifestanti. L’immagine di suor Ann Nu Thawng è la più forte ed emblematica dell’ennesima giornata di sangue ieri in Myanmar.

Le proteste

Domenica almeno 18 persone sono state uccise e altre 30 sono rimaste ferite nelle dimostrazioni contro i militari che hanno preso il potere con il golpe il 1 febbraio. A Yangon, più grande città del Paese e capitale fino al 2005, la polizia e l’esercito hanno usato blindati e idranti per disperdere la folla e in diverse città le forze dell’ordine hanno sparato sui manifestati.

La protesta anti-golpe e per il ritorno alla democrazia è tornata stamane a sfidare i militari nelle piazze in varie città della Birmania. Alcuni media internazionali riferiscono di barricate ricostruite a Yangon con impalcature di bambù, cassonetti e pneumatici. Video che circolano sui media e sui social mostrano manifestanti in marcia nella città sud-occidentale di Dawei. L’attivista per i diritti umani Thinzar Shunlei Yi, ripreso dall’Ansa, afferma che “il bagno di sangue ha solo reso la protesta più forte e più determinata che mai, ed è stato quindi controproducente” per il regime militare.

Cosa chiedono le folle

Le folle continuano a chiedere la liberazione di Aung San Suu Kyi, già premio Nobel per la pace e leader della Lega per la democrazia, che alle elezioni di novembre ha ottenuto l’83% dei voti. E proprio oggi la leader birmana deposta dal colpo di stato militare è stata accusata di altri due crimini durante l’udienza in videocollegamento. Lo ha detto il suo avvocato, Nay Tu, precisando che si tratta di “violazione delle legge sulla comunicazione e incitamento al disordine pubblico“. Il legale non ha potuto parlare con San Suu Kyi prima del processo. La prossima udienza è fissata per il 15 marzo. Intanto la portavoce dell’Ufficio per i diritti umani delle Nazioni Unite Ravina Shamdasani denuncia che oltre 1.000 persone sono state arbitrariamente arrestate e detenute nell’ultimo mese.

Cardinale Bo: serve giustizia e verità

Il Myanmar è un campo di battaglia” ha scritto ieri su Twitter il cardinale Charles Maung Bo, arcivescovo di Yangon, e primo porporato di questo Paese a maggioranza buddista di 54 milioni di abitanti. Il cardinale Bo è tornato a twittare oggi esprimendo ancora il suo rammarico: “Non ci può essere davvero pace senza giustizia. Non ci può essere giustizia senza verità. In assenza di verità sorgono violenza, ingiustizia, menzogna, ipocrisia, oscurità e malvagità. Solo la verità può renderci liberi”.

Pur non prendendo alcuna posizione politica, religiosi e religiose cristiani da mesi sono in prima linea sia per promuovere il dialogo e la riconciliazione tra le parti sia per denunciare le violazioni dei diritti umani. Uno sforzo per la pace fatto a beneficio di tutta la popolazione.

L’intervista a Padre Cervellera

Ma per capire il ruolo della minoranza cristiana InTerris ha raccolto l’analisi di Padre Bernardo Cervellera, missionario del Pime, esperto dell’area e direttore di AsiaNews: “La Chiesa si sta facendo sentire pur essendo una minoranza piccolissima e tra le più perseguitate. All’inizio i vescovi erano molto cauti ma adesso i cristiani chiedono a gran voce che la dittatura militare deve finire”. Cervellera racconta che in questi giorni si sono svolte molte processioni religiose per la pace, in cui i fedeli e membri del clero recitano il rosario ma allo stesso tempo salutano con le tre dita (il simbolo dei manifestati ndr) e mostrano solidarietà ai manifestati.

Secondo il direttore di AsiaNews nel Paese è ancora viva l’eredità del viaggio apostolico del Papa avvenuto nel 2017: “La visita di Francesco riuscì ad unire le diverse componenti cristiane e anche altre minoranze che si ritrovarono insieme per la prima volta. Questa vicinanza durante le giornate del viaggio è stata una novità feconda in un Paese difficile da governare composto da oltre cento etnie e dove i militari hanno sempre applicato la politica del dividi et impera”.