La vera liberazione dalle offese della storia

Quando scoppiò la Seconda guerra mondiale, Karol Wojtyla scriveva all’amico regista Kotlarczyk: “Credo che la nostra liberazione debba essere la porta di Cristo”. Sono, quasi alla lettera, le stesse parole del discorso inaugurale del pontificato di Giovanni Paolo II, il 22 ottobre del 1978. Infatti, in quel discorso, c’è il ricordo del patrimonio di fede, di cultura e di storia che il nuovo Papa aveva portato dalla sua Patria. E c’era, insieme, il ricordo della sua personale, e spesso drammatica, esperienza. L’esperienza di chi, con lo scoppio della Seconda guerra mondiale,, aveva vissuto sulla sua pelle prima il nazismo (anzi, con la fuga assieme al padre per 200 chilometri a piedi, e poi il forzato ritorno a Cracovia, aveva vissuto il patto Ribbentrop-Molotov), la persecuzione sotto l’occupazione tedesca (con il rischio di finire in un campo di concentramento), e poi il comunismo (uno scontro progressivo con il regime marxista, specie al tempo delle celebrazioni per il millennio della Polonia cristiana e della costruzione della croce a Nowa Huta) e, insieme, la spaventosa tragedia della Shoah (con tanti amici scomparsi nei campi di sterminio).

Dunque, è proprio quel passato che aiuta a comprendere il senso profondo del pontificato di Giovanni Paolo II. In “Dono e mistero”, infatti, prima ricorda di aver potuto conoscere, per così dire, dall’interno, i due sistemi totalitari che hanno tragicamente segnato il XX secolo: il nazismo e poi il comunismo. E aggiunge: “E’ facile quindi capire la mia sensibilità per la dignità di ogni persona umana e per il rispetto dei suoi diritti, a partire dal diritto alla vita…”.

E non solo l’esperienza dei due totalitarismi. L’intera esperienza di Karol Wojtyla, negli anni polacchi, avrebbe poi trovato un seguito nel pontificato. Il profondo amore per la libertà.  La partecipazione al Concilio Vaticano II. I mea culpa. L’attenzione ai giovani, alle famiglie. La convinzione che la Chiesa cattolica, alla fine del secondo millennio, dovesse operare una profonda purificazione, e che sarebbe infatti sfociata nel grande Giubileo del Duemila.

Il punto di svolta fu il secondo conclave del 1978. Era morto improvvisamente Giovanni Paolo I, un Papa di 65 anni, dopo appena 33 giorni di pontificato. Fu un momento di grande sofferenza, e di grande spaesamento, per la Chiesa. Bisognava fare in fretta a trovargli un successore. Ma in Conclave le cose andavano per le lunghe. Il contrasto tra i due italiani, Siri e Benelli, i quali oltretutto contraddicevano alcune delle condizioni fondamentali per l’elezione, l’uno perché contrario al Concilio, e l’altro per essere stato un personaggio troppo esposto e troppo potente della Curia romana, ebbene, quel contrasto aveva causato una profonda divisione nel corpo elettorale. Gli scrutini andavano a vuoto, l’uno dopo l’altro. E fu allora, la sera del 15 ottobre, dopo la cena, che qualcuno cominciò a guardare fuori dell’Italia. Era l’austriaco Franz König. Autorevole. Credibile. Convincente. E con un nome preciso da proporre: Karol Wojtyla, arcivescovo di Cracovia. Giovane, sì, 58 anni, ma con un bagaglio di esperienze di tutto rispetto. Il giorno dopo, a completare l’opera, fu il brasiliano Aloisio Lorscheider.

Al settimo scrutinio, Wojtyla raccolse più della metà dei voti, ma era sempre più scuro in volto. Il primate polacco, Stefan Wyszynski, andò a parlargli. “Se ti eleggono, ti prego, non rifiutare! Devi accompagnare la Chiesa al terzo millennio”. E gli chiese anche di assumere lo stesso nome di papa Luciani, per rispetto del popolo italiano che già tanto lo amava. Wyszynski era preoccupato per l’accoglienza che avrebbe potuto avere un Papa non italiano. E, più tardi, lo disse anche a me: “Mi raccomando, lei che scrive su un giornale di Roma, lo aiuti, lo aiuti!”. Ma Karol Wojtyla, almeno in quel momento, non aveva bisogno di aiuti: all’ottavo scrutinio, ottenne 99 voti. Novantanove su 111. Finiva il monopolio italiano sul papato.

Giovanni Paolo II, per me, è stato il Papa dell’Incarnazione, il Papa che ci ha fatto vedere il volto umano di Dio. Con la sua fede, con la sua missione, con il suo impegno per la difesa di ogni persona, con la santità che ha segnato costantemente la sua esistenza, con il coraggio e la serenità con cui ha affrontato le tante prove, l’attentato, le malattie, e infine la morte, Karol Wojtyla ci ha mostrato come fare una nuova esperienza di Dio, il Dio dell’amore, della misericordia, della tolleranza. E non più quello che era diventato quasi una “caricatura” del Creatore, un Dio vendicativo, nascosto nei cieli, indifferente ai drammi degli uomini; oppure il Dio tipo New Age, il Dio magico, piegato ai propri interessi, a una morale a proprio uso e consumo. Giovanni Paolo II, invece, ci ha testimoniato come l’incontro tra l’uomo e Dio – tra l’azione umana e la risposta divina – avvenga già qui, su questa terra; e, dunque, come la vita, accompagnata dalla fede cristiana, vada vissuta pienamente già qui, ora.