Susanna Odevaine (Choronde Progetto Educativo): “Le diversità creano opportunità”

L'intervista di Interris.it alla presidente di Choronode Progetto Educativo Susanna Odevaine sulla danceability, anche conosciuta come danza inclusiva o danza integrata

Foto Choronde Progetto Educativo

“Chi non danza non sa cosa succede”, recita un frammento risalente a secoli fa.  L’arte tersicorea è un’espressione artistica del movimento, non fine ma mezzo per aprire la strada alla relazione interpersonale, esprimendo e comunicando attraverso la molteplicità dei linguaggi espressivi. Questa opportunità di comunicare con gli altri appartiene a tutti. Un esempio è la danceability, conosciuta anche danza integrata o danza inclusiva, che si rivolge a danzatori professionisti, persone curiose, bambini e giovanissimi, persone che praticano il movimento e persone con disabilità sensoriali, motorie o intellettive. Si tratta di una metodologia di improvvisazione danzata elaborata dal coreografo statunitense Alito Alessi, insegnante pioneristico nel campo della contact improvisation nata negli anni Settanta, direttore artistico del Joint Forces Dance Company (JFDC) costituita nel 1986 presso la University of Oregon, e fondatore di DanceAbility International. Da metà degli anni Novanta Alessi ha iniziato a danzare con un partner in sedia a rotelle in molte scuole pubbliche, per sensibilizzare i bambini all’arte e risvegliare l’attenzione sulle potenzialità delle persone con disabilità.

Per approfondire meglio questo luogo artistico d’incontro, Interris.it ha avuto l’opportunità di intervistare Susanna Odevaine, danzatrice, diplomata all’Institut de Formation Professionnelle pour l’Enseignement de la Danse Contemporaine, certificata teacher trainer da DanceAbility® International, Presidente dell’Associazione Choronde Progetto Educativo e Direttrice del Corso di Formazione in Pedagogia del Movimento La Danza va a Scuola. Da quasi vent’anni conduce laboratori di pedagogia artistica nelle scuole pubbliche di ogni ordine e grado e si occupa di formazione e aggiornamento docenti di scuola Primaria e dell’Infanzia, sul territorio nazionale in diversi contesti. E’ inoltre docente in diversi master.

Per gentile concessione di Susanna Odevaine

Cos’è la DanceAbility?

“Il termine DanceAbility è stato coniato dal danzatore e coreografo Alito Alessi che ha elaborato, a partire dal movimento artistico della Contact Improvvisation sviluppatosi negli Stati Uniti negli anni Settanta, questo particolare lavoro sull’improvvisazione danzata, capace di coinvolgere persone con le abilità più diverse. La danza è un’arte che si trasmette da persona a persona, è un’arte viva: la ricerca di Alessi si è concentrata su come poter offrire proposte di improvvisazione che non escludessero nessuna delle persone presenti in quel momento in sala. La danza inclusiva abbraccia molteplici metodologie, la DanceAbility è una di queste, tutte creano,  attraverso il linguaggio coreutico,  uno spazio potenziale di relazione tra i presenti in cui le diverse capacità sono considerate una ricchezza anziché un ostacolo. Lo spirito è concentrarsi su cosa si può creare insieme, la prospettiva è di natura artistica, e gli effetti incidono sul benessere di tutti i soggetti coinvolti”.

Come si instaura la relazione con le persone non udenti, non vedenti o con disturbi motori?

“La prima cosa da tenere presente è che nella DanceAbility non c’è una gerarchia tra movimenti, non ci sono movimenti sbagliati, piuttosto movimenti possibili che generano relazioni. L’interazione è unica ogni volta e si basa sullo scambio tra persone. Affinché questa relazione sia il più possibile reciproca, è necessario  che le informazioni circolino in tutti i sensi, il primo passo è capire come farle circolare. Ad esempio, se una persona è cieca l’informazione passa attraverso il tatto, l’udito o il movimento. La risposta all’informazione è accolta nella sua soggettività e specificità, tutte le risposte dalle più semplici alle più complesse, hanno un peso. Interagendo tra loro, generano materiale coreutico, frutto di ciò che ciascuno può dare in quel momento. La sfida è riconoscere l’insieme di quello che sta accadendo nel gruppo di cui ognuno può sentirsi parte”.

Attraverso quale processo trasformano in movimento ciò che hanno dentro?

“I non danzatori, le persone comuni con o senza disabilità sono portatrici di movimenti autentici, al di fuori di ogni stereotipo coreutico, e sono fonte d’ispirazione per la ricerca. Si porta la danza su un piano di confronto che arricchisce anche il danzatore che rimette in discussione le sue abitudini e la sua routine. Siamo abituati a comunicare con il linguaggio verbale, ma tutto quello che trasmettiamo agli altri è intriso di moltissimi segnali. I linguaggi artistici lasciano emergere altri aspetti dell’espressione umana, hanno molto a che fare con il senso e con  sensi, col nostro modo di percepire e dare forma a sentimenti, emozioni idee”.

Quale effetto ha la danza integrata sugli “abili”?

“Siamo abituati a guardare gli altri attraverso i nostri punti di riferimento, quando incontriamo una persona che non rientra nelle nostre ‘previsioni’, proiettiamo i nostri schemi di comportamento, pretendiamo di sapere ciò che sa fare o non sa fare, e invece siamo continuamente sorpresi, questo ci mette di fronte ai nostri pregiudizi, ci fa sentire scomodi. La creatività spesso nasce dal limite, dalla scomodità, dal bisogno di cercare nuove soluzioni. Durante i laboratori scopriamo il tempo in cui nessuno ha fretta, i tempi di vuoto di silenzio in cui finalmente le cose accadono, momenti di grande, condivisione umana e di comunicazione. Credo che una delle cose più preziose per l’essere umano sia provare felicità attraverso la presenza dell’altro”.

Ci può raccontare come si realizzano i laboratori di DanceAbility?

“I laboratori sono generalmente di due tipi: in un caso siamo noi ad andare in una comunità, nell’altro il gruppo si costituisce in altro luogo con persone che vengono da situazioni diverse. Lo spirito di questo approccio è mescolare il più possibile le capacità e le competenze rendendo il gruppo il più eterogeneo  possibile con il coinvolgimento di danzatori, curiosi, persone che praticano il movimento. Lo scopo è cercare di dare vita a un’esperienza di scambio, di crescita, di incontro, che non vuole essere mai unilaterale. Nei laboratori non si mira al raggiungimento di risultati in termini quantitativi, casomai qualitativi: l’attenzione che rivolgi a te stesso mentre ti muovi, alle sensazioni interne, il clima di lavoro, la disponibilità a cogliere ed elaborare le informazioni immesse dagli altri. La progressiva apertura dell’attenzione di ciascuno a quello che succede nella sala, si conquista durante il percorso laboratoriale, con l’esercizio e allenamento. Le differenze creano opportunità, la diversità è necessaria perché l’attività diventi produttiva e creativa”.

A chi vi rivolgete, con questo metodo?

“Nel mondo della scuola c’è disponibilità nei confronti di metodologie di apprendimento un po’ al di fuori dell’ordinario, quando un gruppo classe manifesta delle criticità, in ogni caso le attività espressive e di movimento, ancorché indispensabili per un pieno sviluppo della persona, sono spesso carenti in ambito educativo. I laboratori extracurricolari sono rivolti ad adulti, si svolgono spesso nelle comunità, nei centri diurni o residenziali”.

Cosa l’ha spinta a intraprendere questa strada?

“Per me la danza è sempre stata un’avventura appassionante, umana e conoscitiva. Ho sentito il bisogno di nutrirla con la vita nelle diverse tappe che ho attraversato, la curiosità e le necessità mi hanno portata ad affacciarmi su realtà in cui la danza non è prevista. Poi il bisogno di approfondire e affrontare certe questioni è nato a scuola, dove mi sono dovuta confrontare con la difficoltà di raggiungere tutti i presenti, i non appassionati, bambini, bambine, ragazzi con disabilità mentale, fisica, sensoriale…. In questo percorso è stato  determinante l’incontro con Alito Alessi”.

E com’è, per lei, quest’esperienza?

“Ogni volta nuova, alla fine di ogni laboratorio, in me qualcosa è cambiato”.