Silvano Manzoni: “Io volontario Ail vi spiego cosa significa prendersi cura di un ammalato”

L'intervista di Interris.it a Silvano Manzoni (Ail Bergamo) che spiega l'impegno e l'importanza dei volontari

AIL - Manzoni
A sinistra Silviano Manzoni. Foto: AIL

Diventare un volontario AIL è una scelta importante che nasce da una grande motivazione. Alla base c’è la condivisione dei valori associativi, ma per diventare un volontario sono anche necessarie delle competenze che garantiscano la qualità dei servizi erogati, un supporto continuo e la capacità di mantenere le relazioni con il gruppo.

L’intervista

Durante il percorso di una malattia e della sua cura la figura del volontario diventa fondamentale. Interris.it ne ha parlato con Silvano Manzoni, coordinatore della sezione AIL di Bergamo.

Silvano come si diventa un volontario AIL?

“L’aspirante volontario viene indirizzato nelle singole sezioni territoriali e in base alle esigenze, intraprende un percorso prima di orientamento, poi formativo. Durante questo iter vengono prese in considerazione le motivazioni che lo hanno spinto ad intraprendere questa esperienza. Innanzitutto, il singolo deve acquisire piena consapevolezza del ruolo che ricoprirà e gli viene richiesto di ampliare una serie di competenze per affrontare i diversi compiti che lo aspettano”.

Cosa vuol dire prendersi cura dell’ammalato?

“È una componente essenziale che va a braccetto con la cura. Una persona, quando scopre di avere una malattia debilitante, sa benissimo che per un periodo, a volte molto lungo, non potrà più fare determinate cose, come prima. Inizia dunque ad aver bisogno di aiuto, di sostegno e della consapevolezza che con tanta volontà può vivere il percorso della malattia con serenità ed ottimismo. Il nostro compito è quello di aiutarlo ogni singolo giorno a reagire e di prendere piena coscienza che al giorno d’oggi di malattie ematologiche si può guarire”.

A Bergamo dove accogliete le persone che vengono dimesse dall’ospedale?

“Abbiamo due centri di ospitalità totalmente gratuiti. Si tratta di un ambiente in cui gli ammalati possono vivere serenamente con i propri cari e in cui è severamente vietato parlare della malattia, ma solo di salute e di cose belle. Fino a qualche decennio fa il malato ematologico non poteva lasciare l’ospedale perché aveva bisogno di rimanere in un ambiente sterile. Ora invece, grazie alla ricerca e a dei trattamenti innovativi, il paziente può uscire, ma ha comunque bisogno di essere seguito in un ambiente protetto”.

Che servizi offrite?

“Innanzitutto ci occupiamo della prima accoglienza in ospedale con le nostre assistenti sociali che accompagnano il paziente e lo aiutano ad ambientarsi. Questo primo approccio è fondamentale perché l’ammalto che entra in ospedale a volte è pieno di ansia e ha bisogno di essere rincuorato e di sapere che per qualsiasi cosa può fare riferimento su qualcuno di noi. Successivamente, quando arriva nei nostri alloggi, noi lo accompagniamo in ospedale con i nostri automezzi e da noi può godere di una vita quasi normale”.

La famiglia come viene coinvolta?

“Quando si ammala una persona, tutto il nucleo familiare soffre con lui. Innanzitutto, viene spiegato il progetto di cura e come verrà affrontato. La loro vita è stravolta e per questo tutti i componenti hanno bisogno di ritrovare un equilibrio. Pensiamo per esempio quando si ammala una donna, il marito molto spesso si trova a fare delle cose che mai avrebbe pensato di fare, come gestire la spesa, la casa e la quotidianità dei figli. Noi insegniamo proprio a fare questo e rendiamo la nuova realtà meno traumatica. A trarne beneficio è anche la persona ammalata che si sente più tranquilla e riesce a non colpevolizzarsi per aver provocato questo cambiamento improvviso”.

A voi volontari cosa resta?

“La meravigliosa scoperta di una vita nuova. Tramite loro noi riusciamo a vedere con occhi nuovi tutto ciò che ci circonda e a vivere in modo più profondo gli stessi rapporti con le altre persone. Ci tengo a dire che il volontario non è un essere straordinario con dei poteri particolari, ma una persona come tutte le altre che fa qualcosa del tutto normale. Il problema è che troppo spesso ci scordiamo della normalità e cerchiamo qualcosa di speciale che però non dona nulla”.