Il progetto “mammufante”: la strana idea del mammut ibrido che fa discutere

E’ giusto tentare la strada della genetica per ricreare o, in qualche modo, restituire lo status di “vivente” a una creatura selezionata dalla natura per l’estinzione? Un dubbio che avrebbe alquanto incuriosito il particolare personaggio di Ian Malcolm (tra i protagonisti del famoso romanzo – e film – “Jurassic Park”), il quale spesso esprimeva i propri dubbi sull’efficacia della riproduzione animale tramite filamenti di dna, evidenziando come il ciclo vitale di ogni creatura sia incastonata in un percorso evolutivo che, come della vita, deve tener conto anche dell’estinzione. Eppure, in un mondo che va avanti a colpi di nuove scoperte e tecnologie, anche processi non esattamente conciliabili con l’evoluzione delle specie possono uscire dai libri di fantascienza e tradursi in fatti concreti. E, in questo senso, la creazione da zero di una specie estinta, come il mammut, potrebbe diventare realtà.

L’ibrido “mammufante”

Non si tratta certamente di un’idea nuova. E, a dirla tutta, andrebbe precisato che, il progetto ideato da diversi team di ricercatori mondiali (in particolare il “Wolly Mammoth Revival” statunitense), andrebbe a realizzare non un vero e proprio esemplare di elephas primigenius, ma un elefante “con numerosi tratti del mammut”: una sorta di “mammufante”, creato dagli embrioni dei proboscidati nostrani ma completo degli elementi genetici dei loro antenati. Un progetto avveniristico che, tuttavia, viene stimato come realizzabile già nei prossimi due anni, come dichiarato dal coordinatore della ricerca, George Church. Quello che dovrebbe venirne fuori, dunque, sarebbe un animale dalle dimensioni dell’attuale elefante ma con alcuni dei principali tratti somatici propri del suo illustre predecessore, come le orecchie di piccole dimensioni, tratti di pelo, grasso sottocutaneo e sangue adatto a sopportare temperature anche molto basse.

Scienze ed etica

La genesi della mission, è iniziata con il recupero di alcuni filamenti di dna da esemplari di mammut conservati nel permafrost della Siberia (era il 2015), successivamente inseriti all’interno di cellule appartenenti alla specie elephas maximus (l’elefante asiatico, ritenuto maggiormente adatto in quanto possessore di alcuni geni “mammutiani”) dimostrando come, effettivamente, l’operazione “ibrido” potesse funzionare (lo step successivo consisterebbe nell’inserire le cellule in un utero artificiale, così da non mettere in pericolo una elefantessa). Che questa operazione sia giusto o meno, è tutt’altra faccenda. Non sono mancati (e continuano a non mancare), infatti, numerosissimi dubbi di natura etica sull’operato dei ricercatori. La fantascientifica operazione di utilizzare frammenti di dna per riportare in vita specie estinte o, ancora più discutibilmente, per creare in modo artificiale delle specie “a metà” fra vecchio e nuovo, è decisamente appuntabile sotto molti punti di vista. Primo fra tutti, lo snaturamento della sovranità del ciclo vitale che, in un percorso predefinito e immutabile, mette in conto la vita e la morte. D’altro canto, l’idea stessa della “riproduzione” in laboratorio resta un campo tutt’altro che convergente, in fatto di opinioni a riguardo. Gli scienziati, giustificano il tutto sostenendo come tutto questo potrebbe essere finalizzato alla salvaguardia dell’elefante asiatico, anch’esso a rischio estinzione come il suo antenato, ma anche di altre specie in pericolo. Tuttavia, a ben pensarci, il fascino misterioso esercitato da questi animali, specie fra i più piccoli, è in gran parte collegato alla loro contestualizzazione storica: nel caso del mammut era l’era glaciale… e vederlo camminare in uno zoo sarebbe quantomeno una visione fuori luogo.