Cyberbullismo, quando le leggi non bastano

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Crescono le leggi sulla tutela dei minori, ma aumentano anche i casi di bullismo e cyberbullismo. Nell'ultimo rapporto globale sul cyberbullismo, elaborato dall'Osservatorio Wezum e promosso dalla Fondazione Scholas Occurrentes insieme alla Fondazione Carolina, emerge che oggi un bambino su cinque è vittima di cyberbullismo. Per cercare risposte a questo fenomeno di controtendenza non bastano soluzioni unilaterali. Secondo il sociologo Antonio Marziale, Presidente dell'Osservatorio sui Diritti dei Minori, va, innanzitutto, rivista l'educazione delle giovani generazioni: “negli anni Settanta, l'Unesco sollecitò i governi a istitutire l'educazione ai media nelle scuole, cogliendo le intuizioni del sociologo Marshall McLuhan, che aveva delineato la tendenza dell'uomo a tecnologicizzarsi. A distanza di 49 anni, l'Italia non ha ancora istituito cattedere obbligatorie alla stregua delle altre materie scolastiche”. Per Marziale, combattere il problema significa puntare sulla formazione dei più piccoli, spesso vittime e carnefici dello stesso fenomeno: “Se noi non cominciamo dall'educazione, il bullismo e il cyberbullismo continueranno a oltranza”. I numeri del rapporto, frutto dei dati forniti da Unesco, Microsoft e Itu, l'International Communication Union, mostrano uno sviluppo del cyberbullismo diverso rispetto al bullismo tradizionale: se il secondo tende a diminuire con l'età, nel caso del cyberbullismo si registrano casi  nell'età adulta. Tra le vittime, inoltre, il numero delle ragazze sopravanza in larga misura quello dei maschi. 

Il ruolo dei genitori

Secondo alcune stime, nel mondo almeno un bambino su quattro è stato vittima di bullismo o cyberbullismo. In Italia, nel 2018 le denunce alla Polizia Postale per reati connessi al cyberbullismo su minori sono cresciute del 65%, passando dalle 235 del 2016 alle 388 nell'arco di soli due anni. Si tratta, tuttavia, di un numero relativo: gli agenti ricevono molte più segnalazioni, ma all'inizio si cerca di risolvere il problema con azioni di responsabilizzazione degli autori e delle famiglie. Un elemento di criticità, emerso dal rapporto, riguarda la consapevolezza del fenomeno: spesso, educatori e scuole sono più informati su come affrontare il cyberbullismo rispetto alle stesse famiglie. Per sensibilizzare i genitori, la Polizia Postale, in partnership con Kaspersky Lab, ha avviato dallo scorso anno una campagna itinerante “Una vita da social”, che ha coinvolto quasi 2 milioni di ragazzi, 200.000 genitori e 100.000 insegnanti: un primo passo su una strada ancora lunga. La giornalista e conduttrice televisiva Francesca Barra, intervistata da In Terris, deputa ogni responsabilità ai genitori. Barra, madre e anche vittima di recenti episodi di cyberbullismo, crede che il fenomeno vada arginato soprattutto nelle famiglie: “Spesso i genitori consegnano un'arma ai figli senza insegnare a usarla e non c'è un controllo da parte loro sui figli”. Anche Marziale non demonizza la tecnologia di per sé, ma l'uso che ne viene fatto: “Le tecnologie non sono una minaccia, ma se non controllate diventano un'arma”. Per il sociologo, il ruolo della scuola nella gestione del fenomeno è maggiore rispetto a quello delle famiglie, per ragioni di dinamica interpersonale: “Oggi, i genitori non hanno gli strumenti per gestire il fenomeno, perché necessitano di essere educati anche loro. Molti sono stati trovati impreparati, quindi è la scuola che deve attrrezzarsi e dare nozioni educative. Sicuramente, nelle famiglie non si deve avere paura di controllare i figli”. Per Barra, la scuola ha, tuttavia, una responsabilità: “Cercare di essere attenta ai segnali e non imporre l'utilizzo degli smartphone nelle scuole. Credo anche che possa servire fare un pò di educazione civica, perché per i nostri figli i social diventano un termometro della realtà circostante. Insieme con la famiglia, la scuola dovrebbe insegnare ai giovani, invece, a decodificare“.

La lentezza delle leggi

L'Italia è il primo Paese europeo ad aver legiferato su bullismo e cyberbullismo. Secondo Marziale, tuttavia, questo non è sufficiente: “In Italia, in realtà, siamo lontani anni luce da progressi in tal senso. Non sono le leggi a fare la differenza, ma le cattedre di educazione ai media che citavo poc'anzi. Solo con l'educazione nelle scuole si fa la differenza”. Il problema di fondo che il presidente sottintende è che, spesso, gli interventi legislativi sono poco incisivi: “Se un cyberbullo prende di mira personalità note, come nel caso dell'ex presidente della Camera, Laura Boldrini, lo Stato interviene subito. Se capita a uno di noi, invece, non succede nulla. Personalmente, ho fatto tante segnalazioni, ma nessuna è andata a buon fine. Purtroppo, le leggi fanno acqua da tutte le parti”. Per esperienza diretta, anche la giornalista Barra ha riscontrato una lentezza nel sistema: “Fino all'archiviazione dei procedimenti disciplinari a carico dei cosiddetti “hater”, sono andata avanti nelle mie denunce. Bisogna avere pazienza per ottenere giustizia: solo così si consegue un risultato. L'importante è essere tenaci e non arrendersi di fronte all'impunità”.

Il Papa e la guerra al bullismo

In occasione della giornata Stopcyberbullyingday, anche Papa Francesco ha preso parte al dibattito, lanciando inviando un videomessaggio trasmesso in streaming tra 26 Paesi nel mondo.il Pontefice è stato chiaro sul fenomeno: “Il bullismo è un problema che mi preoccupa molto, è un fenomeno di autocompensazione, perché si guarda l'altro dall'alto in basso ma l'unica occasione in cui possiamo guardare l'altro dall'alto in basso è quando lo aiutiamo ad alzarsi“. Papa Francesco ha espresso preoccupazione su eventuali metodi per fronteggiare questo fenomeno: “In farmacia non vendono rimedi. Che possiamo fare nel frattempo? L'unica maniera è andare verso l'altro, prendersi del tempo per il rapporto con l'altro e il dialogo. Non abbiate paura. Dichiarate la guerra al bullismo perché diminuisce la dignità!”. Papa Francesco non è nuovo alle sferzate contro il bullismo. Nella prima omelia a Santa Marta del gennaio 2018, il Pontefice definì il fenomeno quale “segno del peccato originale”: “Io mi domando: cosa c’è dentro queste persone? Cosa c’è dentro di noi, che ci porta a disprezzare, a maltrattare, a farci beffa dei più deboli? Si capisce che uno se la prenda con uno che è più forte: può essere l’invidia che ti porta … Ma i più deboli? Cosa c’è dentro che ci porta? È una cosa che è abituale, come se io avessi bisogno di disprezzare l’altro per sentirmi sicuro, come una necessità – per poi concludere – io dico che questa è una delle tracce del peccato originale. Questa è opera di Satana”. Da questa consapevolezza, Bergoglio ha sempre ravvisato la necessità della formazione dei più piccoli, vittime e attori del fenomeno sin dalla loro giovane età. Da ciò, l'allora arcivescovo di Buenos Aires pensò di istituire, assieme a José Maria del Corral, la Fondazione Scholas Occurrentes che, in italiano, significa 'scuola di vicini'. Come ha ricordato ieri la presidente Corral: “Abbiamo iniziato questo movimento con Bergoglio dodici anni fa, dopo un caso in Argentina. Fondammo, quindi questa scuola: ragazzi di ceto sociale e provenienza diverse, tutti insieme una settimana all'anno. In questa esperienza, abbiamo visto come si guardavano gli uni gli altri, scoprendo il cuore che accomuna ciascuno”.