Istituto Nazionale Tumori: “Le diagnosi tardive sono più letali del Covid”

Al via a Milano l'ambulatorio virtuale che permetterà consulti a distanza. "I malati oncologici non possono aspettare", spiega Filippo De Braud, direttore del dipartimento di oncologia medica ed ematologia

“Le diagnosi tardive sono certamente più letali del Covid. Gli screening devono riprendere anche se con un timing differente rifacendoci alle linee guida internazionali. Magari si può anche pensare di effettuare alcuni esami vicino casa e poi inviati in ospedale- afferma a Dire il professor Filippo De Braud, direttore del dipartimento di oncologia medica ed ematologia dell’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano e ordinario all’Università degli Studi di Milano-. In ogni caso bisogna essere aderenti agli screening perché sono strumenti di diagnosi precoce e sono utili per educare la popolazione. Lo screening ad esempio per il tumore del polmone è un grandissimo deterrente per i fumatori ma in ogni caso non bisogna abbassare la guardia”.

Fase 2

Nella fase 2 dell’epidemia si ampliano i servizi dell‘Istituto Nazionale Tumori di Milano che riparte incrementando i servizi di telemedicina e degli screening per agevolare il paziente oncologico evitandogli, laddove possibile, viaggi inutili verso l’ospedale visto che il 30% degli pazienti arriva anche da fuori regione. Dal lockdown in poi è cambiato il modo di prestare assistenza e di somministrare le terapie oggi consegnate a domicilio o negli ospedali più vicini al paziente. Evidenzia De Braud: “Non abbiamo mai fermato la nostra attività anzi, essendo diventati un centro Hub nel periodo di piena emergenza, abbiamo preso in carico anche malati da altri ospedali. Per fare questo abbiamo dovuto ridurre il carico delle prestazioni che non ritenevamo urgenti e gli screening ma ci stiamo organizzando per ripartire. Abbiamo attivato inoltre dei percorsi filtro ed un reparto di sorveglianza per screenare i pazienti sospetti per infezione da Covid al fine di valutare la loro contagiosità”.

Utenza

Precisa De Braud: “E’ stato utile istituire anche un triage chirurgico, che prevedeva una tac e successivamente il tampone, al quale sono stati sottoposti i pazienti prima di essere inviati in sala operatoria. In parallelo abbiamo sottoposto a tampone tutti i pazienti di oncologia medica che dovevano essere sottoposti a chemioterapia. Il contributo della telemedicina ci ha supportato soprattutto nel periodo del lockdown per offrire pareri, visto che gran parte dell’attività privata era chiusa ma anche per filtrare gli accessi “superflui” in ospedale. Questo modo di lavorare da mantenere anche in futuro ci consentirà di evitare al paziente viaggi inutili, visto che il 30% della nostra utenza proviene da altre regioni, richiedendo preliminarmente la documentazione”.

Telemedicina

Prosegue il professor De Braud: “La telemedicina vuol dire tante cose come ad esempio l’invio dei documenti e successiva refertazione in modalità telematica ma anche i consulti tramite un video. Stiamo per partire con l’ambulatorio virtuale che permetterà consulti a distanza con il paziente e i suoi familiari. Questo tipo di servizio consente al personale medico di lavorare da remoto e persino da casa, durante ancora questa fase di emergenza. Visto che penso non sarà così semplice questa fase 2 come molti invece credono. Gli ambulatori, in questo modo avranno meno accessi e verranno usati maggiormente per visite accurate a coloro che hanno davvero necessità di venire in ospedale. Certamente questo servizio non può essere erogato gratuitamente e questo vorrebbe dire che Regione e ministero della Salute e governo dovrebbero riconoscere questa prestazione che ad oggi non è nomenclata come una prestazione sanitaria. Una quota della popolazione italiana oggi si avvicina al livello di povertà e il fatto di spostarsi per doversi curare anche solo per 100 chilometri, magari accompagnato da un parente che rinuncia alla giornata di lavoro, sono costi indiretti per il paziente che con la teleassistenza verrebbero meno. In più molta gente ha paura di tornare in Lombardia perché di fatto rimaniamo una delle poche aree in Italia che ha un carico di infezione non insignificante. In questo modo si riesce ad ovviare al problema“.