Di Segni (Ucei): “E’ il momento di rimboccarsi le maniche”

Intervista a Interris.it di Noemi Di Segni, presidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche italiane. Come la pandemia ha cambiato la solidarietà

“Ci sarà da rimboccarsi le maniche e non dovrà essere un tabù confrontarsi anche sulle devastanti conseguenze economico-finanziarie portate dal virus- afferma a Interris.it Noemi Di Segni, presidente Ucei, -. Tutto il terzo settore è chiamato ad affrontare con determinazione e consapevolezza questa sfida. Il mondo ebraico farà senz’altro la sua parte, pronto a collaborare con chiunque e in qualunque contesto”.

Di Segni

Noemi Di Segni è da luglio 2016 alla guida dell’ebraismo italiano. La presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane ha 51 anni anni, è nata a Gerusalemme e vive a Roma.

L’emergenza sanitaria ha prodotto un milione di nuovi poveri in Italia. In che modo la pandemia può essere l’occasione per rafforzare le reti di solidarietà a sostegno delle fasce più deboli della popolazione?
“È fondamentale che questo tema sia e resti sempre al centro dell’attenzione. Parliamo infatti di uno dei grandi drammi del nostro tempo. Ricordiamo tutti lo slogan “Andrà tutto bene”, un grido di speranza che nasceva dalla consapevolezza della gravità di quel che stava succedendo. Diversamente infatti non sarebbe stato così diffuso e partecipato. Ci sono stati infiniti gesti di eroismo, coraggio, solidarietà, a partire dall’apporto degli instancabili operatori della sanità. Tutto questo ci ha dato il coraggio di credere nelle persone. Dobbiamo ripartire da qui, elaborando anche le molteplici sofferenze vissute. Come la solitudine di tante morti, una tragedia nella tragedia”.
All’interno delle comunità si sono attivate in pandemia forme di aiuto ai più bisognosi?
“Sì, è stata una delle priorità assolute. Abbiamo provveduto con un sostegno economico a chi più era in difficoltà. Al contempo sono state implementate forme di supporto di altra natura. Penso ad esempio al servizio telefonico nazionale allestito già a inizio marzo per fornire un aiuto psicologico a chiunque sentisse il bisogno di confrontarsi con una voce amica”.
Può farci un esempio?
“Senso di solitudine, vuoto, sconforto: sono situazioni emotive che abbiamo cercato di affrontare con il massimo impegno, con l’obiettivo di non dimenticare nessuno. La sfida è stata quella di essere ancora di più comunità. Un punto di riferimento, specialmente per le famiglie. Anche attraverso l’offerta di numerose attività a distanza che hanno creato legami tra persone di diverse comunità rafforzando e valorizzando una dimensione nazionale di raccordo. Sono molto orgogliosa di quel che è stato fatto”.
Nell’esperienza comunitaria, quali sono i settori che hanno maggior bisogno di essere sostenuti?
“Penso all’istruzione, un’altra priorità. In Italia ci sono quattro scuole ebraiche: a Roma, Milano, Torino e Trieste. Luoghi dove si fa cultura, luoghi dove si costruisce cittadinanza consapevole. Per questo ci siamo uniti al Forum delle Famiglie nella richiesta al governo di uno stanziamento di fondi adeguati a tutela degli istituti paritari. L’abbiamo esplicitato in un messaggio comune, in cui si ricorda che ‘il nostro sistema scolastico è formato da scuole statali e scuole paritarie entrambe pubbliche perché pubblica è la funzione educativa’. In tale ottica pertanto, sottolineavamo ancora, ‘il pluralismo scolastico e la libertà educativa non sono concessioni ma diritti laici, che toccano le famiglie in un Paese che è plurale per storia e cultura’”.
Il contrasto ai danni provocati dall’emergenza sanitaria può essere terreno di incontro tra le diverse religioni?
“Assolutamente sì. È un’occasione da non perdere per tutti coloro che riconoscono nella sacralità della vita umana, di ogni vita umana, un cardine del proprio pensiero e dei propri convincimenti religiosi. L’Ucei ha scelto di donare una parte dei propri fondi Otto per Mille e di fare ogni possibile sforzo, in raccordo anche con l’Associazione Medica Ebraica, non solo per combattere il virus sul piano sanitario ma anche per rafforzare progetti solidali di vario genere. Naturalmente a beneficio dell’intera collettività”.
La carità condivisa aiuta il dialogo interreligioso?
“Ogni impegno comune può senz’altro favorire confronto e reciproca comprensione. Più che di carità parlerei però di tzedakah, termine ebraico che richiama la complessa sfida della giustizia sociale. Un concetto che esprime quindi non libero arbitrio, ma un obbligo. L’obbligo, cui siamo tutti chiamati, di aiutare chi è rimasto indietro”.