Non nominare il nome di Dio invano

Non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli”. È il Vangelo secondo Matteo, l’apostolo ispirato dal Signore. Il filosofo Pascal amava ripetere che per agire correttamente bisogna parlare correttamente. La sovrabbondanza di citazioni Sacre nei discorsi di inizio crisi di governo non rincuorano ma preoccupano coloro che confidano nella virtù unificante della religione. Il ritorno smodato e sconclusionato di una certa idea di fede nella vita pubblica e nelle sedi istituzionali contraddice la reale portata aggregante della vera concezione delle Sacre Scritture. Abramo non è partito da Ur per dividere ma per unire tutti i figli di Dio. Sentire i massimi rappresentanti del popolo scagliarsi contro reciprocamente brani evangelici e citazioni devozionali provoca sconcerto e amarezza nell’opinione pubblica realmente cristiana.

Si è persino sentito nell’austera aula del senato un importante esponente di partito etichettare la preghiera mariana per antonomasia come segnale di appartenenza ad organizzazioni criminali. Mai, neppure negli Anni di piombo e all’epoca delle battaglie radicali contro i valori cattolici ci si era azzardati a equiparare le pubbliche e private esternazioni di fede a pizzini occulti indirizzati a congreghe, affiliazioni, collusioni di inimmaginabile gravità. È come – per esempio – se prostrarsi in segno di adorazione della divinità in una qualsiasi moschea asiatica o africana equivalesse ipso facto ad un messaggio di connivenza destinato ai gruppi terroristici che seminano morte e distruzione in nome del pianeta.

Allo stesso modo, anche se con graduazioni di erroneità concettuali differenti, non può non deluderci l’asserita difesa dei segnali di condivisione religiosa da parte di uomini di Stato che rivendicano una sorta di esclusiva, diremo quasi di copyright, sulle simbologie religiose. Come se un santino andasse bene e un crocifisso o una coroncina del rosario no. Quanta differenza con le citazioni evangeliche e bibliche della ingiustamente vituperata età embrionale della nostra Repubblica. In quegli anni, riconquistata la libertà democratica, i leader e intellettuali dell’epoca richiamavano in Parlamento le radici religiose dell’Italia con l’intento di unire e non certo di dividere. E in altre nazioni celebrate per la qualità della rappresentanza istituzionale, si giura sui testi sacri senza che nessuna si scandalizzi o si stracci le vesti in nome di una malintesa concezione di laicità.

Gesù, nelle tentazioni del deserto viene avvicinato dal grande adulatore che, in maniera melliflua e opportunistica, gli snocciola citazioni Sacre per ingannarlo e farlo cadere in trappola. È lo stesso tentatore che oggi spinge nelle sedi più rispettabili della nostra vita pubblica tanti sedicenti portavoce degli italiani a battagliare gli uni contro gli altri armati a colpi di versetti del Vangelo e di devozionismi senza fede. Nella Scrittura, quella vera, è fatto divieto di pronunciare il nome di Dio invano. In una celebre dissertazione un grande pensatore spiegò perché non possiamo non dirci cristiani. La fede si riconosce dalle opere. Un po’ di umiltà e di dignità, se non altro nei confronti della storia patria, consiglierebbe di tener fuori i santi dalle dispute tra fanti. I veri grandi “statisti” quando vanno in Chiesa non convocano i fotoreporter, si immergono nel dialogo con Dio, come facevano De Gasperi, La Pira e Lazzati. 

Ad alzare un po’ lo sguardo si riuscirebbe persino ad intravedere un umile servitore delle Scritture che, dopo aver compiuto una non trascurabile impresa (condurre il suo popolo fuori dalla prigionia), arrivò a vedere la meta senza riuscire a mettervi piede. Certo, era solo Mosè, lui apriva le acque e guidava una schiera verso la terra promessa, non aveva certo la presunzione di decidere chi può dirsi credente e chi no.