Il Libano a tre anni dall’esplosione nel porto di Beirut. L’intervista all’esperto Lorenzo Trombetta

Nel terzo anniversario dell’esplosione che ha ucciso 246 persone nella capitale del Paese dei Cedri, Interris.it ha intervistato il giornalista e analista del Medio Oriente Lorenzo Trombetta

Foto di rashid khreiss su Unsplash

Una scena da film distopico in un contesto generale già duramente segnato da una profonda crisi economica e finanziaria a cui l’instabilità politica non sa dare una risposta. Lo sguardo e le parole di un testimone possono aiutare a comprendere meglio la cronaca di quella che è stata definita una delle dieci esplosioni non nucleari più potenti della storia, oltre che a mettere in fila quello che è successo in seguito. Lorenzo Trombetta, giornalista corrispondente dal Libano e dalla Siria per l’agenzia di stampa italiana Ansa e la rivista di geopolitica Limes, analista esperto di Medio Oriente, ha vissuto a lungo a Beirut e il pomeriggio del 4 agosto di tre anni fa ha assistito dalla finestra di casa, pressoché in diretta, alla deflagrazione che si è verificata nel porto della capitale del Libano. Interris.it lo ha intervistato per raccogliere il racconto di quei momenti e di quelli immediatamente successivi alla catastrofe, oltre che per conoscere gli sviluppi della vicenda, qual è oggi la situazione del Paese dei cedri e quali sono le sue prospettive.

Un tappeto di vetri

L’esplosione di 2.750 tonnellate di nitrato di ammonio, stipato nell’hangar 12 dello scalo marittimo libanese, ha ucciso, ad oggi, 246 persone. L’ultima delle 242 vittime identificate è Ayoub Jouni ed è deceduto nel dicembre 2022 per via delle gravi lesioni riportate, mentre non si conoscono ancora le generalità di tre donne e un uomo. I feriti dello scoppio che ha devastato un terzo di Beirut, nella sua porzione centrale ed orientale, sono stati oltre seimila. “Stavo lavorando alla scrivania di fronte alla finestra da cui potevo vedere la baia e il porto quando alle 18:08 ho sentito la terra tremare”, racconta a Interris.it Trombetta, che ha vissuto stabilmente nella capitale del Libano dal 2005 fino a quel momento e ha documentato, come giornalista, conflitti e attentati nel Paese. “Dapprima ho pensato a un terremoto, poi dopo aver visto salire il fungo dovuto all’esplosione, mi sono chiesto se non si trattasse invece di un attentato”. Uscito di casa, si è trovato davanti una parte di Beirut completamente disastrata. “La città era un tappeto di vetri, tutte le strutture di quel materiale di Beirut centro ed est erano crollati e le persone ferite scendevano in strada” – descrive – “l’esplosione ha avuto un effetto più violento delle bombe utilizzate negli attacchi mirati contro un obiettivo, erano scene da film distopico”.

Inchieste e responsabilità

La ricerca della verità giudiziaria è ancora in corso, sia a livello nazionale che internazionale. Ad oggi, non ci sono risposte definitive a perché quella quantità di nitrato di ammonio fosse stata conservata in quella rimessa dal 2013 e da chi. “Non ritengo che in Libano si giungerà a una verità giudiziaria su quello che è successo”, dichiara il giornalista, “il capo procuratore che conduce l’indagine, il giudice Tareq Bitar, indica come responsabile un sistema formato da un ‘cartello’ di gruppi che puntano allo sfruttamento delle varie risorse del Paese”.

La crisi e le prospettive

L’esplosione nel porto di Beirut è avvenuta in un periodo storico drammatico per il Paese dei cedri, che è quarto al mondo nella classifica dell’indicatore economico Hanke’s Annual Misery Index, calcolato dall’economista della John Hopkins University Steve Hanke, principalmente a causa dell’inflazione. La crisi economica e finanziaria, che secondo la Banca mondiale è una delle più gravi dalla seconda metà del XIX secolo dura ormai da cinque anni. Secondo l’organizzazione non governativa in difesa dei diritti umani Human Rights Watch l’80% della popolazione è stato ridotto in povertà e ne hanno risentito servizi pubblici importanti come la salute e l’istruzione. Nel 2019 ci sono state diverse proteste di piazza, ma la politica e le istituzioni non sembrano comunque in grado di reagire a questa situazione. Nel 2019, in seguito alle manifestazioni, si è dimesso l’allora primo ministro Saad Hariri, poi il suo successore Hassan Diab ha compiuto lo stesso passo, col suo intero esecutivo, dopo l’esplosione nel porto della capitale. Ci è voluto oltre un anno, con in mezzo due tentativi conclusisi in un nulla di fatto, per arrivare a un nuovo governo con premier Najib Mikati, il quale ha inoltre assunto ad interim le funzioni di presidente dopo la fine dell’incarico del precedente capo dello Stato Michel Aoun. “Il Libano sta vivendo la peggiore crisi finanziaria della sua storia, chi aveva un salario da mille dollari oggi è come ne avesse cinquanta”, spiega Trombetta. “Tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta c’era un doppio registro per i pagamenti, in dollari o in lire libanesi, così la valuta statunitense è diventata merce di scambio molto comune. Per dare stabilità e far arrivare investimenti e finanziamenti dall’estero, l’ex governatore della banca centrale libanese Riad Salameh ha ottenuto e difeso il cambio fisso, con un dollaro che valeva 1.500 lire. “Questo regime è però saltato dopo che, a metà 2019, si è palesato il fallimento delle banche libanesi, continua l’esperto, “e gli istituti, per via della scarsa liquidità, hanno così ‘congelato’ i conti in valute come dollari ed euro, mentre il valore della lira libanese è crollato”. “Le persone si sono trovate con il potere d’acquisto polverizzato e i proprio conti congelati, così sono state costrette a elemosinare beni e servizi ai ‘capibastone’ dei gruppi del ‘cartello’, a cui non mancano le risorse finanziarie”, aggiunge l’analista. Mentre il Mediterraneo diventa uno snodo importante per l’energia, il Paese dei cedri ha ancora “un peso energetico pari a zero”, puntualizza Trombetta, in attesa di conoscere i risultati delle esplorazioni alla ricerca di gas naturale nel sito di Qana, in virtù dell’accordo raggiunto con il vicino Israele, grazie alla mediazione degli Stati Uniti, sulla definizione di una frontiera marittima. Interpellato su quali prospettive abbia il Libano, il giornalista osserva che “il ‘cartello’ fa parte della società libanese e la società fa parte del ‘cartello’” e conclude dicendo che “le nuove generazioni rischiano di replicare quel modello, per cui se oggi si cominciasse a lavorare in un modo più virtuoso sulla governance, sull’inclusività e sui diritti fondamentali, i cambiamenti non avverrebbero nell’arco di qualche anno ma a medio-lungo termine”.