“Mia figlia Emanuela, il coma e la battaglia per la vita”

Emanuela Lia è morta all’età di quarantaquattro anni. La vita di questa donna salentina è stata divisa perfettamente in due fasi. Ventidue anni li ha passati con la fronte baciata dal sole e con i capelli carezzati dal vento. Gli altri ventidue bloccata su un letto, a ricevere baci e carezze, oltre che assistenza ininterrotta, dai suoi familiari. Primo tra tutti a starle a fianco il padre, Cesare Lia, una vera e propria sentinella pronta a raccogliere ogni flebile segnale di ripresa da parte di sua figlia.

L'incidente

La speranza di una ripresa effettiva si è però spenta il 24 maggio 2015, quando Emanuela ha ceduto dopo una lotta iniziata il capodanno del 1993. La festa, l’allegria, la voglia di stare insieme tra amici. Ma poi, in auto, l’imprevisto: il mezzo perde il controllo e si va a schiantare contro un albero. A farne le spese peggiori è Emanuela, che è uno dei passeggeri. L’impatto per lei è devastante, entra in coma e le vengono dati pochi mesi di vita. In famiglia, com’è normale che sia, la notizia arriva come un fulmine, che però non abbatte il padre Cesare. Sostenuto da una fede radicata, lui, avvocato, ex consigliere regionale, rifiuta di arrendersi all’idea che per sua figlia non ci sia nulla da fare. E le circostanze non gli danno torto: Emanuela continua a vivere e dopo due anni esce dal coma vegetativo. Inizia così un percorso costellato di salite e discese.

I progressi

Oggi, a quattro anni dalla morte di Emanuela, Cesare Lia racconta la sua storia ad In Terris. “Sono stati anni duri – afferma – perché mia figlia non poteva muoversi. Però ci sono stati momenti promettenti, che mi hanno fatto sperare che potesse esserci un minimo di recupero”. Speranza che ha spinto i genitori di Emanuela a portarla a Innsbruck da Lecce, dove era stata ricoverata subito dopo l’incidente e tenuta in rianimazione. Nella città austriaca fu accolta in un centro all’avanguardia, dove tuttavia il responso dei medici fu analogo a quello dei colleghi italiani: poco tempo, e poi Emanuela sarebbe morta. Ma così non fu. I genitori la portarono a casa, si armarono di amorevole pazienza e iniziarono ad imboccarla, in modo graduale, fino a toglierle il sondino. “All’inizio le davamo solo acqua e pochissimo cibo liquido. Poi ha imparato a deglutire da sola”, racconta il papà. Il quale ricorda anche i progressi di sua figlia: “È tornata a casa che non comunicava per niente, ma grazie alle nostre sollecitazioni è diventata sempre più partecipe”. Dal momento dell’incidente non ha mai più parlato, eppure riusciva ad esprimersi. “Con gli occhi, con le espressioni del viso, ma anche con le mani si faceva capire”, spiega Cesare Lia. Si fece capire, rivolgendogli un sorriso, anche da Benedetto XVI, che incontrò nel giugno 2008 nel corso della visita del Papa alla basilica di Santa Maria di Leuca.

Dal caso Englaro a quello Lambert

Era in questo stato, Emanuela Lia, il 9 febbraio 2009. Quel giorno le attenzioni dell’Italia intera si posarono sulla clinica “La Quiete” di Udine. È qui che morì un’altra ragazza vittima di un incidente stradale, Eluana Englaro, dopo diciassette anni vissuti in stato vegetativo. Quel calvario divenne un caso nazionale, tra sentenze, contenziosi parlamentari, interventi della Chiesa, ricorsi e appelli. Il padre della giovane, Beppino Englaro, si batté per sospendere l’alimentazione alla figlia e – parole sua – “lasciarla libera”. Emanuela – racconta papà Cesare – assistette dalla tv al rovente dibattito di quei mesi. “In genere per farla sorridere le facevo vedere film comici, con Totò o Stanlio e Onlio”, spiega. Ma in quel periodo più che sorrisi, raccolse cenni di disapprovazione. “Le chiedevo, mentre guardavamo le immagini di Eluana, se lei volesse morire – racconta -. E lei di tutta risposta dava segni di insofferenza, a significare che lei desiderava vivere, sia pure in quelle condizioni”. Papà Cesare ricorda che anni prima dell’incidente, una sedicenne Emanuela una volta disse “che non avrebbe mai voluto vivere in coma”. Ma – aggiunge il padre – “le cose poi cambiano. Spesso a parlare di ciò che sarebbe giusto in certi casi sono persone che non hanno modo di stare al fianco di chi si trova in quello stato, di percepirne i diversi segni di vita”. Lui ne ha contemplati tanti in ventidue anni passati al capezzale della figlia Emanuela. “L’ho cresciuta quando era bambina – spiega con la voce di uomo vissuto che non rifugge alla tenerezza – e poi l’ho ricresciuta di nuovo per altri ventidue anni, fino al suo ultimo sospiro”. È stata un’esperienza forte, tragica, ma di “grande arricchimento umano e spirituale”, ci tiene a sottolineare Cesare. Il testamento di Emanuela non è andato perduto, il padre continua la lotta “per le tante persone in stato vegetativo”. Il suo pensiero corre a Vincent Lambert, quarantaduenne tetraplegico francese intorno al cui destino si sta consumando una battaglia. Cesare la speranza di vedere sua figlia risvegliarsi l’ha riposta oggi negli altri degenti come Lambert, affinché non vengano visti come essere improduttivi, dunque inutili, ma – chiosa – “persone che nella maggioranza dei casi vogliono vivere, che desiderano la morte soltanto quando si sentono un peso o abbandonate”.