L’approccio One Health come difesa dalle pandemie. L’intervista all’infettivologo Cauda

Per la Giornata internazionale di preparazione alle pandemie, l’intervista di Interris.it al docente di malattie infettive all’Università Cattolica e al Campus bio-medico Roberto Cauda

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La scorsa primavera si è chiuso un capitolo, il più terribile, di un’emergenza che ha quasi messo in ginocchio il mondo. Il 5 maggio 2023 infatti l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) ha annunciato la fine dello stato di emergenza sanitario globale dichiarato il 30 gennaio 2020 di fronte alla pandemia di Coronavirus. Il Covid ci ha fatto pagare un prezzo altissimo, soprattutto in termini di vite umane. In circa tre anni i casi complessivi segnalati a livello mondiale sono stati quasi 800 milioni e si sono sfiorati i sette milioni di decessi ufficiali. Rispettivamente 26 milioni di casi e circa 190mila morti nel nostro Paese. La crisi generale causata dal Coronavirus ha colpito duramente anche l’accesso ai servizi essenziali come sanità e istruzione, i rincari hanno indebolito il potere d’acquisto delle persone esacerbando diseguaglianze e povertà, inoltre ha inciso profondamente sulla salute mentale di milioni di uomini e donne, giovani e adulti, in tutto il mondo. Per capire come potersi fare trovare pronti in futuro, il 7 dicembre 2020 l’Assemblea generale delle Nazioni unite ha deciso di istituire una Giornata internazionale di preparazione alle pandemie, fissata per il 27 dicembre.

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L’intervista

A tre anni dalla proclamazione di questa data, Interris.it ha intervistato il professore di malattie infettive all’Università Cattolica e al Campus bio-medico di Roma Roberto Cauda.

A inizio 2020 eravamo impreparati ad affrontare una pandemia?

“Prima che scoppiasse il Coronavirus nelle riunioni dell’Agenzia europea per i medicinali (Ema), di cui sono membro come consulente dal 2021, si discuteva se a livello mondiale eravamo pronti o meno ad affrontare una pandemia, pensando però a quella influenzale. I piani pandemici nazionali, con i passaggi per minimizzare il contagio e cercare di contenere l’infezione, c’erano. Si preparano infatti in anticipo pensando a quelle malattie che si prevede possano diffondersi in diversi continenti e interessare milioni di persone, non si ritagliano su uno specifico virus. Il problema della pandemia di Coronavirus è stata l’alta presenza di asintomatici, dal minimo del 30 al massimo del 50% dei casi, che potevano trasmettere l’agente patogeno”.

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Com’è il post-pandemia?

“A maggio 2023 è stata dichiarata la fine dell’emergenza, il Sars-Cov-2 oggi fa meno paura rispetto al 2020. La convivenza non problematica col virus è possibile, la maggior parte della popolazione mondiale è stata vaccinata con tre dosi e c’è chi ha l’immunità ibrida, dovuta all’essersi vaccinati e ad aver contratto il Covid. Comunque dobbiamo prendere come quasi ineluttabile la possibilità di reinfettarci in presenza di una nuova variante che eluda il sistema immunitario. La fase attuale è diversa dalle precedenti, la variante Omicron interessa più le vie respiratorie alte, con raffreddore e mal di gola, piuttosto che causare polmoniti. Ma nei pazienti fragili, le persone anziane, immunodepresse o con patologie sottostanti, la malattia può decorrere in forme gravi. Per cui sono importanti il richiamo vaccinale, l’uso della mascherina se si visita un soggetto vulnerabile e il tampone in presenza di sintomi. Laddove ci potrebbe essere pericolo, sempre meglio essere cauti”.

Il nostro Paese ha adeguato le sue misure e contromisure sanitarie, dopo la pandemia di Coronavirus?

“La mia impressione è che ci sia stato un cambio di passo, di mentalità. Abbiamo capito l’importanza di superare la visione ‘ospedalocentrica’ e avere due poli, l’ospedale e la medicina del territorio. Serve potenziare gli ospedali, per esempio aumentando il numero di posti letto nei reparti di rianimazione, formare i medici e rafforzare i presidi territoriali, come i medici di medicina generale e pediatri, che sono stati preziosi”.

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Qual è la situazione della “salute” nel mondo oggi?

“Nell’età della globalizzazione la distinzione tra patologie del nord e del sud del mondo è meno evidente, basti pensare che in Italia abbiamo avuto casi di dengue. Tra le ragioni delle pandemie ci sono la deforestazione, il contatto tra l’uomo e gli animali selvatici, con i virus che vi albergano, la facilità e la velocità di andare ovunque. Gli effetti dei cambiamenti climatici e una scarsa attenzione all’ecologia portano nuovi potenziali rischi, occorre rispettare la natura secondo l’approccio ‘One Health’, cioè considerando collegate tra loro la salute umana, quella animale e quella ambientale. D’altro canto l’uomo ha visto incrementarsi la vita media non solo grazie ai farmaci e alla tecnologia, ma anche per la purezza dell’acqua”.

Quale potrebbe essere il prossimo spillover?

“La possibilità di un salto di specie è legata al maggiore o minore contatto con i virus presenti negli animali selvatici, ma anche in quelli di cui conosciamo le caratteristiche come pure quelli sconosciuti. La sorveglianza deve essere a 360 gradi, non ci si deve limitare a tenere sotto controllo solo alcuni virus. Prima della pandemia di Covid non erano tanti i gruppi che lo studiavano perché non si pensava potesse avere questa ‘esplosione’. Oltre a questo, serve fare ricerca anche in assenza di un pericolo. Basti pensare che lo studio sui vaccini a tecnologia mRna è cominciato alla fine degli anni Ottanta in ambito oncologico e il suo portato ha permesso poi di immunizzarci contro il Coronavirus”.