Giornata contro il cancro infantile. Intervista alla dottoressa Sabina Vennarini

Un lavoro che devi amare profondamente, altrimenti non lo potresti fare. Dottoressa Sabina Vennarini: "Celebrare questa giornata vuol dire riconoscere una delle  sofferenze più grandi"

A sinistra: la dottoressa Sabina Vennarini. A destra: Foto di Vitolda Klein su Unsplash

La giornata mondiale contro il cancro pediatrico, istituita dall’Organizzazione mondiale della sanità per sensibilizzare l’opinione pubblica sul tema dei tumori infantili e per sostenire bambini e adolescenti malati e le loro famiglie. Giunta alla ventitreesima edizione, la giornata è promossa da Childhood cancer international (Cci), la più grande rete di associazioni esistente nel mondo a supporto dei pazienti e dei loro familiari, attiva in più di novanta Paesi nei cinque continenti.

L’intervista

Sul tema, Interris.it ha intervistato la dottoressa Sabina Vennarini, Radiologo, Radioterapista, oncologo, pediatra; responsabile della struttura semplice di radioterapia pediatrica; IRCCS Fondazione Istituto Nazionale dei Tumori di Milano.

Dottoressa, ricorre oggi la Giornata mondiale contro il cancro infantile: quale importanza ha?

“Per noi medici la Giornata contro il cancro infantile riccorre 365 giorni l’anno. La nostra è una scelta di vita che porta a dedicarsi completamente a dei pazienti affetti da una patologia estremamente delicata. Questa giornata è molto importante perché attraverso network, testimonianze, o dei piani di lavoro comune si porta alla luce un mondo che, se non viene approcciato, quasi non si conosce. Celebrare questa giornata vuol dire riconoscere una delle  sofferenze più grandi, perché non c’è nulla di più doloroso che vedere un bambino che si ammala per una neoplasia”.

Come si fa a spiegare a un bambino così piccolo che dovrà affrontare una malattia seria?

“Con i bambini bisogna dire la verità, non si può creare un castello di bugie. Una delle osservazioni che spesso ci viene fatta è: ‘Il bambino non capisce’. Non è proprio corretto, né vero, né giusto. Quando approciamo un bambino, qualsiasi sia la sua età, dobbiamo sempre riportarlo alla realtà, ossia far capire che ci sarà una brusca interruzione della sua vita quotidiana, che si tratta di una cosa gravissima che però può essere affrontata con noi. Dobbiamo, quindi, essere molto chiari per avere la sua collaborazione, la sua compliance, ma soprattutto dicendogli la verità in maniera multidiscuplinare. Solo così potremmo avere il 100% della fiducia dei bambini. Se, invece non siamo sinceri, non facciamo capire loro cosa accade, allora non riusciremo a curarli”.

Come, ogni giorno, riesce ad affrontare tanta sofferenza?

“La sofferenza non è quantificabile, non ci si abitua mia. Possiamo indossare delle corazze per cercare di proteggerci. Quando si ammala un bambino, si ammala tutta la famiglia. E’ impossibile essere immuni da questa sofferenza. Avere dei colleghi che fanno il tuo stesso lavoro, questo è un punto di profonda condivisione del dolore. Ci sono degli equilibri sottili che bisogna cercare di ottenere perché in pediatria il mondo può essere o tutto rose o tutto molto grigio. Inoltre, bisogna amare profondamente questo lavoro, altrimenti sarebbe impossibile farlo”.

I bambini le chiedono mai se moriranno?

“Purtroppo è una domanda ricorrente. Magari non al primo colloquio, ma nel corso delle cure hanno la percezione, soprattutto gli adolescenti che le cose non vanno molto bene nei casi in cui la malattia si diffonde nei loro corpi. Si cerca di infondere in loro una speranza. Anche noi, pur essendo professionisti, non abbiamo mai tutte le risposte. Io cerco sempre di riportare i ragazzi, i bambini e le loro famiglie alla quotidianità, senza fare piani a lungo raggio”.

Lei è credente? La fede le è di aiuto nei momenti di difficoltà?

“Sì, sono credente. La fede è una fonte inesauribile di aiuto. A volte ci troviamo a vivere momenti di estrema sofferenza, dobbiamo prendere decisioni complesse che esulano dagli standard ma che sono dettate dalla nostra esperienza. Si ha proprio la necessità di abbandonarsi e confidare in qualcosa più grande di noi, in Dio”.