Cop28: il documento finale gioca più sulle parole che sui fatti

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I lavori della COP28 di Dubai sono conclusi. Poche le novità rispetto alla COP dello scorso anno. Il testo finale, giunto come al solito dopo diversi ripensamenti e riletture, sembra giocare più sulle parole che sui fatti. https://www.cop28.com/en/ E i numeri lo confermano. A cominciare dal tanto sbandierato fondo per le perdite e i danni subiti da alcuni paesi: dovrebbe ricevere meno di tredici miliardi di dollari. https://www.cop28.com/en/climate_finance_framework Eppure nel 2009, alla COP15 di Copenaghen, i paesi maggiori responsabili delle emissioni di CO2 avevano già promesso che avrebbero aiutato con decine e decine di miliardi di dollari i paesi più poveri. Due anni fa, poi, alla Cop26 di Glasgow, i paesi più sviluppati avevano assunto l’impegno di raddoppiare il sostegno finanziario ai paesi più colpiti dai cambiamenti climatici. Ora, a Dubai, si parla di poco più di una decina di miliardi di dollari. Pochi, troppo pochi: secondo l’UNEP, l’Agenzia delle Nazioni Unite per l’Ambiente, per far fronte ai cambiamenti climatici causati anche dalle emissioni di CO2 dei paesi più ricchi sarebbero necessari tra i 215 e i 387 miliardi di dollari. All’anno e per un decennio. https://www.unep.org/resources/adaptation-gap-report-2023

Poco chiare anche le modalità di gestione dei fondi previsti dalla COP28: all’inizio dovrebbe essere gestito dalla Banca Mondiale (scelta non gradita a molti dei paesi beneficiari degli aiuti). Inoltre, non è chiaro “chi” potrà beneficiare di queste risorse: se solo i piccoli stati insulari colpiti dalla risalita del livello dei mari e quelli con bassi PIL e HDI (Human Development Index) o anche altri paesi come quelli colpiti da eventi estremi (si pensi al Pakistan colpito dall’alluvione lo scorso anno). Ma non basta. Gli aiuti promessi alla COP28 saranno volontari e diluiti in un lasso di tempo ampio. A firmare l’accordo sui fondi sono stati poco più di una decina di paesi (finora). Al contrario sono stati ben 143 i paesi che hanno sottoscritto la dichiarazione su clima e salute. E 71 quelli che hanno aderito alla Coalition for High Ambition Multilevel Partnerships (CHAMP) per “per il clima al fine di rafforzare la cooperazione, ove applicabile e opportuno, con i nostri governi subnazionali la pianificazione, il finanziamento, l’attuazione e il monitoraggio delle strategie climatiche, tra cui, a titolo esemplificativo ma non esaustivo, Contributi determinati a livello nazionale (NDC), piani nazionali di adattamento (PAN), biodiversità nazionale strategie e piani d’azione (NBSAP) e strategie di sviluppo a lungo termine a basse emissioni (LT-LEDS), massimizzare l’azione per il clima, anche attraverso coalizioni come il partenariato NDC, al fine di proseguire collettivamente gli sforzi per limitare l’aumento della temperatura a 1,5°C rispetto ai livelli preindustriali e aumentare l’adattamento e la resilienza”. Eppure, alla fine dei lavori, tutti i leader mondiali si sono detti felici, come se avessero “salvato il pianeta”.

Altro aspetto controverso l’escalation del nucleare. A Dubai, una ventina di paesi guidati da Stati Uniti d’America e Francia hanno presentato il piano per triplicare la capacità installata globale di energia atomica entro metà secolo (rispetto ai livelli del 2020). Secondo i firmatari, utilizzare l’energia nucleare consentirebbe di limitare l’aumento delle temperature medie globali a 1,5°C. Ancora una volta numeri diversi da quelli dell’Agenzia Internazionale dell’Energia che, nella sua roadmap per emissioni nette zero, prevede cifre ben diverse. Oggi, l’energia prodotta con il nucleare copre una minima parte del mix elettrico globale (poco più del 5%). Rendere concreti questi impegni comporterebbe investimenti considerevoli e, aspetto non secondario, tempi lunghi visto che costruire una centrale nucleare non è facile né veloce. Quanto ai limiti legati a questa fonte energetica, se da un lato è vero che il ricorso al nucleare riduce le emissioni di CO2, dall’altro aumenta anche i pericoli per la natura e per l’uomo in caso di incidenti.

Poco chiara la posizione di alcuni paesi. Il Belgio non ha firmato l’accordo, ma ha annunciato che ospiterà il primo vertice mondiale sul nucleare. Quanto all’Italia, la premier Meloni è apparsa favorevole al nucleare: nei mesi scorsi, il governo ha stanziato fondi considerevoli per il nucleare. Il nucleare è stato anche inserito al centro della strategia italiana per la transizione del nuovo PNIEC (ed è stata creata la Piattaforma per un Nucleare Sostenibile. Come se si volesse a tutti i costi riaprire il discorso sul nucleare chiuso dal referendum popolare degli anni Ottanta (a seguito del disastro di Chernobyl). L’Italia non ha aderito alla dichiarazione sul nucleare alla COP28. “Su queste questioni bisogna essere sempre molto pragmatici e non ideologici: io non ho preclusioni su nessuna tecnologia che possa essere sicura e che possa aiutarci a diversificare la nostra produzione energetica”, ha detto la Meloni a Dubai.

Nel documento finale della COP28 pubblicato dall’UNFCCC si è giocato molto sulle parole.  Documents | UNFCCC Le nuove parole d’ordine sono “transition away” e “unabated”. Non si parla di eliminare o di ridurre drasticamente l’uso dei combustibili fossili che emettono CO2, ma di intraprendere un cambiamento (“transition away”, appunto). Ma questo potrebbe durare decenni. Quanto al termine “unabated”, è la strategia che ha prevalso sulle tre possibili: un’uscita “ordinata ed equa” dall’uso dei combustibili fossili; la seconda, definita “no text”, ovvero non fare nulla sull’argomento; e la terza adottare “un’accelerazione degli sforzi verso l’uscita dalle fonti fossili unabated, riducendo il loro uso al fine di raggiungere l’azzeramento delle emissioni nette di CO2 nel sistema sistemi energetici entro o attorno alla metà del secolo”. In altri termini, “unabated” significa limitare gli interventi per la riduzione delle emissioni di CO2 alle infrastrutture che utilizzano combustibili fossili come carbone, petrolio e gas ma che sono prive di sistemi di cattura della CO2 emessa. Un recente rapporto del Gruppo intergovernativo di esperti sui cambiamenti climatici delle Nazioni Unite (Ipcc) definisce impianti “unabated”, “quelli non sottoposti ad interventi che permettono di ridurre considerevolmente le emissioni di gas ad effetto serra”. Il rischio è quello di “annacquare” l’azione climatica globale. Ancora una volta, importanti i numeri. Nel 2022, solo poche decine gli impianti in tutto il mondo disponevano di sistemi di cattura e stoccaggio della CO2. La loro capacità di assorbire CO2 si aggirava intorno a 45 milioni di tonnellate (dati dell’Agenzia Internazionale per l’Energia). Per limitare l’aumento delle temperature medie globali a 1,5°C sarebbe necessario ridurre le emissioni mondiali di 22 miliardi di tonnellate nel corso dei prossimi sette anni.

Diplomatico ma preciso il giudizio del Segretario Generale delle Nazioni Unite alla fine dei lavori di Dubai. Secondo Guterres è necessario molto di più per garantire una qualche forma di giustizia climatica: “Molti paesi vulnerabili stanno annegando nei debiti e rischiano di annegare per l’innalzamento dei mari. È tempo di un’impennata della finanza, anche per l’adattamento, le perdite e i danni e la riforma dell’architettura finanziaria internazionale”. E il mondo non può permettersi “ritardi, indecisioni o mezze misure”. La COP28 si conclude con l’invito alla “transizione” dai combustibili fossili; Guterres delle Nazioni Unite: l’eliminazione graduale è inevitabile | La COP28 si conclude con l’invito alla “transizione” dai combustibili fossili; Guterres delle Nazioni Unite afferma che l’eliminazione graduale di petrolio, carbone e gas è inevitabile

Chiaro il riferimento allo studio appena pubblicato dall’UNEP dal quale emerge che i governi dei paesi più ricchi della Terra sembrano far finta di non comprendere né la gravità né l’urgenza del problema. “Sotto alcuni aspetti – si legge nel documento – anziché accelerare, i progressi in materia di adattamento ai cambiamenti climatici sono fermi al palo. Mancano le risorse finanziarie, la pianificazione, ma anche le azioni concrete, con implicazioni gravi in termini di perdite e danni riportati, soprattutto dai più vulnerabili”. “Il rapporto mostra come esista una distanza crescente tra le necessità e le risposte nel momento in cui si tratta di proteggere le popolazioni dalle conseguenze estreme dei cambiamenti climatici. È più che mai urgente adottare misure per proteggere gli essere umani e la natura”, ha detto il segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres. Per risolvere questi problemi “serviranno meccanismi di finanziamento più innovativi per raggiungere gli investimenti necessari”, ha aggiunto Guterres, “I baroni dei combustibili fossili e coloro che li sostengono hanno contribuito a creare questa situazione penosa e ora devono sostenere coloro che ne soffrono”.

Pochi lo hanno notato, il testo finale della COP28 sembra concordare con quanto deciso pochi giorni prima a Doha, alla 12esima Conferenza araba sull’energia. Al termine di quell’incontro, il segretario generale Haitham Al Ghais, ha esortato i membri dell’Opec a bocciare alla COP28 di Dubai qualunque soluzione che prevedesse il phase out. E così è stato. I paesi dell’Opec, il principale cartello di produttori di petrolio, controllano circa l’80 per cento delle riserve mondiali di petrolio. E la maggior parte di queste si trova in Medio Oriente. Per questi paesi, i ricavi petroliferi rappresentano la principale fonte di reddito. Gli Emirati Arabi Uniti, secondo paese arabo a ospitare il vertice sul clima dopo l’Egitto nel 2022 e membro dell’Opec, a Doha, pochi giorni prima dell’inizio dei lavori della COP28, avevano chiesto una transizione energetica che considerasse “più realisticamente” il ruolo dei combustibili fossili nel garantire l’approvvigionamento energetico. Dal canto suo, l’Arabia Saudita, leader de facto dell’Opec, a Doha aveva insistito perché nel documento finale della COP28 si parlasse più di riduzione delle emissioni, che dei combustibili fossili che le causano. E così è stato.

C’è un altro aspetto del quale, al termine dei lavori di Dubai, si è parlato poco. Troppo poco. Per tradizione, ogni anno, il vertice sul clima delle Nazioni Unite si svolge in una parte diversa del pianeta. Nel 2022, i lavori si sono svolti in Egitto. Nel 2023, negli Emirati Arabi Uniti. Nel decidere dove si sarebbero svolti i lavori della COP29 del 2024, pare a causa del veto posto dalla Russia alle candidature di Bulgaria, Slovenia o Moldavia, l’unica alternativa è rimasta l’Azerbaigian.

Questo significa che, per il terzo anno consecutivo, la conduzione dei negoziati delle Nazioni Unite sulla lotta al riscaldamento globale è stata affidata ad un paese grande produttore di petrolio e gas naturale. E questo significa molto di più di quanto si possa immaginare. I lavori della COP28 sono ormai conclusi. E la lotta alle emissioni di CO2 assume sempre di più i contorni di un fallimento a livello globale.