Falabella (Fish): “Servono corridoi umanitari per le persone con disabilità nella Striscia di Gaza”

L’intervista di Interris.it al presidente nazionale delle Federazione italiana per il superamento dell’handicap Vincenzo Falabella

In un conflitto, la condizione delle persone più vulnerabili si complica ulteriormente perché per loro diventano difficili l’accesso ai servizi sanitari e sociali essenziali e l’evacuazione in un luogo sicuro, esponendoli così a un rischio maggiore per la propria vita. Nelle Striscia di Gaza, sotto assedio e sotto le bombe da giorni, per via della risposta israeliana agli attacchi di Hamas del 7 ottobre scorso, vivono anche persone con disabilità e per loro la Federazione italiana per il superamento dell’handicap (Fish), che opera in loco in rete con altre organizzazioni, chiede l’apertura di corridoi umanitari per garantire l’accesso ad assistenza e cure mediche e la realizzazione di percorsi per l’accoglienza di chi fugge.

La situazione

In quella che viene definita come “la più grande prigione a cielo aperto al mondo”, oltre due milioni di persone sono da giorni privi di risorse e il primo carico umanitario è giunto il 21 ottobre, con kit per l’igiene personale, acqua potabile, medicinali e cibo, fa sapere Unicef. Già prima degli ultimi eventi, ha reso noto la confederazione internazionale di organizzazioni no profit Oxfam, l’80% degli abitanti della Striscia riusciva a vivere soltanto grazie agli aiuti internazionali. Mentre il tragico bollettino della guerra riporta i numeri dei morti da entrambe le parti. Secondo il ministero della Sanità di Gaza, il bilancio dei morti per gli attacchi israeliani è salito a 5.791, di cui 2.360 minori, inoltre 12 ospedali sarebbero chiusi e una trentina di cliniche impossibilitate a seguire i propri assistiti. Il portavoce militare israeliano ha comunicato che i soldati caduti sono 308, mentre la polizia fa sapere di avere identificato finora, insieme all’esercito, 1.106 israeliani uccisi il 7 ottobre.

Il centro

Il 6.9% dei gazawi è costituito da persone con disabilità, secondo il Palestinian Center Bureau of Statistics, l’istituto ufficiale di statistica dello Stato di Palestina, riporta Educaid, uno dei partner, insieme a Fish, del progetto di un centro per la vita indipendente “I-Can”. Costoro già in tempi “normali” si trovano a fronteggiare un contesto fatto di luoghi non accessibili, mancanza di ausili adeguati, scarse opportunità di lavoro e stigma sociale, e il centro si propone, con un approccio integrato, di realizzare percorsi individuali e di gruppo, pensati in base alle caratteristiche dei partecipanti, per accrescere le loro capacità decisionali all’interno della famiglia, la loro autostima e la loro indipendenza. “Fino al 7 ottobre le persone costruivano i loro progetti di vita contestualmente all’ambito socio-economico locale per riuscire a vivere indipendentemente dalla condizione di disabilità”, racconta il presidente nazionale di Fish Vincenzo Falabella, intervistato da Interris.it “ma adesso le attività sono sospese, il responsabile è deceduto in seguito all’esplosione di un ordigno”.

L’intervista a Vincenzo Falabella

Presidente, cosa significa per le persone con disabilità trovarsi in mezzo a un conflitto?

“E’ una morte preannunciata, senza alternativa. Per una persona con disabilità o una famiglia con all’interno una persona con disabilità non c’è possibilità di fuggire. La loro situazione condiziona la fuga e molti rimangono in quei luoghi, bersaglio delle bombe. Abbiamo avuto dei contatti con i nostri interlocutori a Gaza e in Israele, ci giungono notizie pesanti. Si percepiscono la paura e la rassegnazione, non si vede un domani”.

Avete lanciato un appello per l’apertura di corridoi umanitari. Avete anche avviato interlocuzioni con le istituzioni?

“Il giorno dopo lo scoppio del conflitto abbiamo scritto al ministro degli esteri Antonio Tajani e al ministro per le disabilità Alessandra Locatelli per chiedere che il nostro Paese si impegni per questa soluzione. La Croce rossa italiana e altre associazioni non governative si attivano per raccogliere presidi medico-sanitari e materiali di altro tipo per portarli a chi vive in quei territori, ma se vogliamo garantire la sicurezza di quelle persone dobbiamo portarle via lì. Se non cessa il conflitto abbiamo il dovere morale di prenderli e portarli al sicuro. Occorre un cessate-il-fuoco per dare la possibilità di essere aiutati a scappare dall’orrore”.

In precedenza vi eravate già attivati per l’Ucraina, con quali risultati?

“La natura del conflitto era diversa rispetto a quello di oggi in Medio Oriente e inoltre la collocazione territoriale ha facilitato l’accoglienza di minori con disabilità dall’Ucraina. Si è riusciti sia a portare aiuti lì che a far arrivare in Italia numerosi cittadini ucraini accolti anche dalla nostra base associativa. La guerra porta solo distruzione e morte secondo la logica del più forte, per far cessare i conflitti occorre anteporre a tutto il rispetto dei diritti umani, la ragione rispetto alla forza”.