Le tragedie familiari, cosa abbiamo imparato da Erika e Omar

A 19 anni dalla tragedia di Novi Ligure il commento con la professoressa Anna Maria Giannini

Era il 21 febbraio 2001 quando, nella città di Novi Ligure, Erika De Nardo, di sedici anni e l’allora fidanzato di Mauro Favaro, detto “Omar”, di diciassette anni, uccisero premeditatamente a colpi di coltello da cucina Susanna Cassini, madre di Erika, 41 anni, e il fratello undicenne Gianluca De Nardo. Secondo l’accusa i due giovani avevano progettato di uccidere anche Francesco De Nardo, il padre di Erika, ma avrebbero poi desistito perché Omar, feritosi a una mano nel corso del duplice delitto, era ormai stanco e aveva deciso di andarsene. Il 9 aprile del 2003, dopo i tre gradi di giudizio, la corte di Cassazione pronunciò in via definitiva la sentenza di condanna nei confronti di Erika e Omar, che furono condannati a 16 e 14 anni rispettivamente. “Oggi a 17 anni di distanza si percepisce ancora che il delitto di Novi Ligure fu un delitto di grande impatto sociale, data la sua efferatezza. Si leggeva interesse, odio, freddezza, distacco emotivo nei confronti dei genitori e del fratellino da parte di Erika”. Spiega ad interris.it la professoressa Anna Maria Giannini, Ordinario di Psicologia generale presso l’Università La Sapienza di Roma.

Come mai le persone rimasero così impressionate da questo delitto, tanto da ricordalo ancora oggi?

“L’omicidio intra familiare periodicamente accade, meno raramente di quanto accade che marito o compagno uccidano la moglie. I femminicidi sono sempre delitti intra murari tra persone che sono unite da un legame affettivo ed ogni delitto è contro natura ma quei delitti che attaccano i forti legami di sangue sono difficili da comprendere ed accettare da parte delle persone, tanto che si sono create delle denominazioni come la sindrome di Medea per l’uccisione dei figli per l’appunto”.

Cosa colpì tutti?

Il caso di Erika e Omar fu un caso di omicidio efferato e quello che colpì particolarmente l’opinione pubblica fu la freddezza con la quale Erika programmò e contribuì ad eseguire questo omicidio. Omar riferì di essere stato talmente coinvolto da accusare la fidanzata di averlo soggiogato. Ad ogni modo rimane che lui si è fatto convincere a compiere quest’azione. Nel caso, invece, di Erika lei aveva interesse a far si che i genitori non ci fossero, la furia omicida era diretta contro la madre, e la determinazione con la quale il terribile gesto è stato portato a termine ha colpito tutti. Nelle perizie ci sono voluti molti dettagli per comprendere una dinamica così complessa”.

I programmi di recupero funzionano?

“I programmi di recupero sono ben strutturati soprattutto per minori e giovani, hanno alta probabilità di funzionare perché parliamo di persone che sono in fase di sviluppo, che hanno ampie possibilità di adattamento e revisione del proprio reato. Se il programma è fatto bene, e se la persona non è affetta da una patologia che può aver determinato un’incapacità di intendere e di volere, al momento della commissione dell’atto (in questi casi si attua un programma di recupero clinico) funziona, soprattutto quando il delitto è di natura comportamentale. Quando però i delitti sono così noti i soggetti hanno difficoltà a rientrare nel tessuto sociale”.

Il padre di Erika la perdonò e volle difenderla nonostante tutto, com’è possibile?

“Quest’uomo meravigliò tutti, ha visto la sua famiglia sterminata e la sua vita completamente rovinata da questa figlia, ma non l’ha mai abbandonata. Quando un giornalista gli chiese come avesse fatto disse ‘mi è rimasta solo lei adesso’, una capacità della mente incredibile e straordinaria il che ci porta anche a pensare che se una persona può arrivare a perdonare un figlio per una cosa del genere, ci fa anche pensare in che clima affettivo vivesse Erika, e che effettivamente, dato il comportamento del padre, sicuramente non le mancava amore. In quest’uomo l’amore ha vinto su tutto, nessuno avrebbe avuto la forza di perdonare eppure lui ci è riuscito”.