L’emorragia dei ghiacciai alpini, “sentinelle” del cambiamento climatico

L’intervista di Interris.it a Vanda Bonardo, responsabile nazionale Alpi di Legambiente, sulla campagna Carovana dei ghiacciai

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Gli effetti del cambiamento climatico sulla criosfera, quella parte di ambiente terrestre costituita da zone permanentemente innevate e ghiacciate, porteranno nel giro di pochi decenni alla scomparsa dei ghiacciai al di sotto di una certa quota. Il ghiacciaio della Marmolada, secondo le previsioni degli esperti, potrebbe scomparire nel giro di 15-20 anni, essendosi ridotto a quasi un decimo rispetto a un secolo fa. E proprio la regina delle Dolomiti è finita, purtroppo, nelle cronache dei giornali quando, lo scorso 3 luglio, 11 persone hanno perso la vita a causa del distacco di un enorme seracco, sulle cui cause gli esperti si stanno interrogando. Probabilmente, hanno contribuito alla tragedia la forte inclinazione del pendio, una progressiva apertura di un grande crepaccio e un forte aumento delle temperature, con conseguente aumento della fusione e incremento della circolazione d’acqua all’interno del ghiaccio. Ma la scomparsa dei ghiacciai precede e prosegue anche dopo i drammi come quello di due mesi fa, apparentemente inarrestabile da almeno trent’anni.

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La campagna di Legambiente

I ghiacciai dell’intero arco alpino italiano soffrono di una grave emorragia a causa della crisi climatica, che colpisce il nostro Paese – ma non solo – anche con periodi sempre più lunghi e intensi di siccità. La perdita di superficie e spessore li porta alla disgregazione in corpi glaciali più piccoli, sempre più in alta quota. E’ quanto ha potuto constatare il team composto da volontari e esperti di Legambiente, storica associazione ambientalista italiana, in partnership scientifica con il  Comitato glaciologico italiano, nel corso della terza edizione della campagna Carovana dei ghiacciai. Un viaggio di cinque tappe lungo l’arco alpino italiano, dai ghiacciai Miage e Pré de bar in Valle d’Aosta fino al Montasio in Friuli Venezia Giulia, passando per il Monte Rosa in Piemonte, il ghiacciaio dei Forni in Lombardia e la Marmolada, tra Veneto e Trentino, dal 17 agosto al 3 settembre. Una panoramica sulla stato di salute dei nostri ghiacciai, messa a confronto con le situazioni documentate nei due precedenti monitoraggi, del 2020 e 2021, che evidenza un’accelerazione inaspettata della riduzione dei ghiacciai alpini.

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L’intervista

Per conoscere i dettagli della campagna di Legambiente, Interris.it ha intervistato la responsabile nazionale Alpi dell’associazione ambientalista Vanda Bonardo.

Ci illustra la campagna Carovana dei ghiacciai”?

“L’idea di questa campagna è nata tre anni fa perché i ghiacciai sono le sentinelle per eccellenza dei cambiamenti climatici, quello che succede qui si può toccare con mano: questi ecosistemi, che sono alla base del ciclo dell’acqua, stanno scomparendo. Andiamo in questi luoghi con uno sguardo scientifico esperto, quello dei Comitato glaciologico italiano, a cui uniamo aspetti di carattere esperienziale. Come le escursioni, che ci fanno entrare in contatto diretto con la natura. Come gli incontri con le comunità locali, da cui scaturiscono anche espressioni artistiche e iniziative culturali. Raccontiamo lo scioglimento dei ghiacciai con la scienza, l’esperienza e l’arte”.

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In che condizioni avete trovati i ghiacciai, in confronto con i precedenti monitoraggi?

“Siamo tornati per vedere se in due anni ci sono stati e abbiamo riscontrato un’incredibile accelerazione degli effetti del cambiamento climatico. Il ghiacciaio Miage sul Monte Bianco, l’unico ormai definibile ‘hymalaiano’, si è ritirato parzialmente, ma soprattutto la superficie si è ridotta e si sono formati dei laghi che si svuotavano, a luglio, per le temperature anomale, nel giro di qualche ora. Sempre in Valle d’Aosta, del Pré de Bar è rimasto un piccolo frammento, in alto. Il ghiacciaio dei Forni, il secondo più grande in Italia dopo l’Adamello (pari a circa 11 km²) e il più esteso del Parco Nazionale dello Stelvio, è collassato. Quella che due anni fa era una lingua di ghiaccio ora è tutta fratturata e anche pericolosa perché i massi rotolano giù. Abbiamo inoltre osservato, con la riduzione della sua superficie, una diminuzione dell’acqua stoccata sotto forma di ghiaccio. A cause di questa emorragia dovuta all’aumento delle temperature, queste ‘water tower’ si stanno perdendo e in prossimità dei ghiacciai scorrono corsi d’acqua. Il problema è che queste grandi riserve d’acqua accumulate erano molto utili nel periodo più siccitoso. In queste condizioni aumentano i rischi che si stacchino grandi blocchi di ghiaccio e si verifichino valanghe, tenendo conto che con le alte temperature il permafrost, cioè il suolo perennemente ghiacciato, fonde e di conseguenza il terreno diventa più incoerente e a rischio crolli”.

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Uno degli allarme che avete lanciato riguarda la “regina delle Dolomiti”, cioè la Marmolada. In che condizioni l’avete trovata?

“Dall’inizio del Ventesimo secolo, più meno quando si sono cominciate a fare queste rilevazioni, il ghiacciaio ha perso il 90% del volume e il 70% della superficie. In queste condizioni, rischia di scomparire già entro 15-20 anni, poi resteranno solo rimarranno blocchi di ghiacci sparsi in alta quota. Non tutti i ghiacciai però reagiscono allo stesso modo. Infatti, mentre quello della Marmolada è esposto a sud e per la sua conformazione è particolarmente reattivo ai cambiamenti climatici, il ghiacciaio del Montasio, in Friuli, è esposto a nord e si trova in sorta di conca ripidissima che lo protegge. Anche questo ha subito un consistente processo di fusione, ma in quella zona nevica parecchio e ha mantenuto, pur essendo a una quota non alta – circa 900 metri sul livello del mare –, quasi interamente la sua superficie. Un altro ghiacciaio regredito tantissimo è quello di Indren, sul massiccio del Monte Rosa in Piemonte. Fino a venti o trenta anni fa, in estate si sciava su una parte del ghiacciaio, oggi è un deserto di roccia”.

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Cosa possiamo fare di fronte alla situazione che emerge dal vostro monitoraggio?

“Servono delle politiche di adattamento, perché queste condizioni permarranno per molto tempo se non andranno addirittura a peggiorar, e altre di mitigazione del danno. Dobbiamo ridurre i consumi, ripensare l’utilizzo acqua e l’agricoltura, attrezzarci per la siccità. Come dobbiamo ripensare l’industria dello sci, dato che avremo la possibilità di sciare solo ad alte quote, sopra i 2000 metri. Il turismo deve cambiare, non solo salendo in montagna in inverno o a Ferragosto, ma vivendola tutto l’anno nel rispetto della natura. Ci sono oggi 250 impianti sciistici abbandonati e nei prossimi anni aumenteranno. Vogliamo lasciare lì sparse queste infrastrutture, come ecomostri? In certi casi occorre smantellarli, in altri si possono riutilizzare. Per esempio, per realizzare un centro di ricerca sull’Indren, come abbiamo intenzione di fare. La montagna potrebbe diventare un luogo maggiormente vivibile, ripensando anche tanti edifici abbandonati dal punto di vista dell’abitare. Molti sindaci ci hanno riferito che quest’anno c’è stato un pieno come era stato registrato in precedenza. Per quanto riguarda invece le politiche di mitigazione del danno, dobbiamo  ridurre le emissioni da fonti fossili, con un utilizzo più morigerato dell’energia. Tutti, con modalità diverse, abbiamo sprecato troppo. In un momento così critico abbiamo bisogno che gli ecosistemi funzionino al massimo, non ci possiamo permettere di distruggere i corsi d’acqua per un po’ di energia in più con l’idroelettrico. La ricetta giusta può essere quella dell’efficientamento energetico, che permetterebbe anche di creare posti di lavoro. Se fanno le scelte giuste, mai come oggi economia e ecologia possono andare d’accordo”.