Medio Oriente, l’occhio del Dragone: qual è il vero ruolo della Cina

In un contesto internazionale estremamente instabile, la voce di Pechino è stata fra le più attive nella prima settimana di guerra tra Hamas e Israele. Casanova (Ispi): "Il suo sguardo è sul sud del mondo"

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Foto di Alejandro Luengo su Unsplash

La distanza geografica gioca un ruolo abbastanza marginale nei processi geopolitici. Niente di strano, quindi, che una delle principali potenze mondiali emergenti, come la Cina, inizi a rivestire un ruolo piuttosto significativo nei processi di normalizzazione (e di stabilizzazione) anche in Medio Oriente. Un atteggiamento, quello di Pechino, che se è fin qui apparso prudente a livello diplomatico, non ha comunque nascosto una certa ambiguità. Da un lato l’impossibilità di poter dimostrare un appoggio pieno ad Hamas, dall’altro la necessità di mostrarsi un attore super partes, realmente in grado in influenzare la stabilità internazionale. E, anche se il campo d’azione è tutto sommato ristretto, l’interesse della Cina nella vicenda va oltre la sfera prettamente locale. In ballo infatti, come spiegato a Interris.it da Guido Alberto Casanova, Junior Research Fellow Asia dell’Ispi, c’è la leadership economico-strategica su una vasta area del mondo.

 

Siamo abituati ad associare la Cina a contesti diversi da quello in Medio Oriente. Eppure, negli ultimi giorni, i pronunciamenti sono stati diversi: da dove parte l’interesse cinese?
“La Cina, negli ultimi decenni, ha avuto interessi abbastanza diversificati sulla regione. Con lo sviluppo dell’industria, dagli anni Ottanta in poi, e anche il petrolio è sempre stato un elemento importante del rapporto di Pechino con i Paesi arabi. Tanto che, quest’anno, il primo cliente del petrolio saudita sia proprio la Cina. La vicinanza è quindi abbastanza marcata. D’altro canto, Israele è soprattutto partner dal punto di vista tecnologico e, per anni, ha fornito la membrana che permetteva il passaggio di alcune tecnologie che in Occidente stavano diventando ristrette ai cinesi. Ad esempio, in Israele si producono semiconduttori al centro della competizione con gli Usa. Ci sono motivazioni economiche che spingono Pechino a mantenere buoni rapporti con entrambe le realtà”.

E questo cosa comporta?
“C’è un elemento più globale nell’approccio cinese alla questione, un interessamento della Cina alla questione, che è rilevante per un gruppo di Paesi appartenenti a un’area importantissima per Pechino, che è quella del Sud globale. Si è concretizzata, nel conflitto israelo-palestinese, una diversa sensibilità dei Paesi del mondo sviluppato e quelli del sud del mondo, in via di sviluppo o arretrati che rivendicano di essere stati vittime dell’imperialismo europeo… La Cina mira a ingraziarsi quei Paesi ed è anche per questo che, negli ultimi giorni, le dichiarazioni pubbliche di Pechino sono state improntate sì sulla neutralità ma ci sono state dichiarazioni abbastanza nette, come quella del ministro degli Esteri, secondo il quale Israele avrebbe oltrepassato i limiti dell’autodifesa. Questo è indicatore di qual è l’audience a cui la Cina vuole rivolgersi, non schierata ma empatica nei confronti dei palestinesi a Gaza”.

Qualche altra potenza cerca di seguire una strada simile?
“Un altro Paese che agisce in questo senso è l’India, che si vuole autocandidare a leader dei Paesi del Sud globale ma che si è apertamente schierata con Israele. Su questa direttrice Cina-India rispetto al conflitto israelo-palestinese, si gioca una parte del contrasto indo-cinese per la leadership del Sud globale”.

L’approccio è quindi prettamente economico o c’è una connotazione strategica?
“C’è sicuramente un elemento economico ma non aiuta a spiegare la posizione di Pechino su questo tema. Come anche il fatto di aver inviato un emissario di pace per mostrarsi effettivamente come un membro attivo, responsabile della Comunità internazionale. Ma che, da un certo punto di vista, mette delle linee rosse a nome di quei Paesi dei quali aspira a una leadership strategica. E una di queste linee è il massacro dei palestinesi”.

Il riferimento principale è ai Paesi africani?
“In generale, la causa palestinese è molto popolare non solo in Africa, ma anche nei Paesi asiatici, soprattutto mediorientali. E, per estensione, nelle nazioni del Sud del mondo che si identificano con la loro situazione, più che con quella di Israele. L’azione di Hamas è problematica per la Cina, così come per qualsiasi altro Paese che non sostenga direttamente la resistenza. Però, in questa posizione intermedia tra i due schieramenti, pur non esprimendo simpatia verso Hamas ma verso la causa palestinese”.

Qual è il peso reale della Cina in Medio Oriente? L’ambivalenza dei suoi rapporti può realisticamente influenzare l’esito del conflitto?
“La sensazione è che si stia chiedendo alla Cina di usare i buoni rapporti con l’Iran per evitare escalation. Non credo sia però in grado di influenzarne la politica estera. A ogni modo, anche da questo punto di vista, Pechino è diventato un attore che prova a far sentire la propria voce anche in Medio Oriente. A inizio anno, ad esempio, aveva annunciato la normalizzazione dei rapporti tra Iran e Arabia Saudita. E, nei mesi successivi, ha annunciato che si sarebbe spesa per aiutare i dialoghi tra israeliani e palestinesi. Quindi Pechino ha un suo interesse a farsi vedere attivo nella risoluzione delle controversie e dei conflitti locali. Quello che può fare è tuttavia limitato, visto che nemmeno gli Stati Uniti avranno probabilmente potere di far terminare il conflitto. Ma per Pechino è comunque già questo importante, per far vedere d essere un attore che ha a cuore il mantenimento della stabilità internazionale”.