Da Del Piero a Totti: quando la bandiera diventa un optional

Chiamatelo romanticismo, l’amore assoluto, quello che non si discute. Perché le bandiere, il simbolo di quello che i calciatori sono stati nella loro vita, e in alcuni casi ancora sono, non sfioriranno mai. Colori e passione, l’anima di un pallone che fu. Una sola maglia, un solo amore. Come Francesco Totti, trent'anni di Roma, prima da calciatore, poi due anni da dirigente vissuti all'ombra di una storia mai costruita. Lo ha spiegato l'ex capitano in una lunghissima conferenza stampa al Coni. Non aveva poteri, non incideva nelle decisioni societarie. E di lì la decisione di chiudere, di lasciare la Roma. Una decisione sofferta dopo aver capito che il suo tempo in giallorosso era scaduto. L'ultima bandiera ad essere ammainata. Ma la storia ci dice che non è stato solo Francesco Totti il martire di un calcio che non c'è più. Ti guardi intorno e scopri che certi valori al mondo d’oggi sono optional.

Tre monumenti

Una volta, il pallone racconta che era una storia diversa. Come quella di Giacomo Bulgarelli, anima e cuore del grande Bologna. Lo chiamavano l’onorevole, ribattezzato così dal super tifoso Gino Villani. Regista e faro di quella squadra che all’Olimpico di Roma nel ’64 conquistò uno storico scudetto nello spareggio contro l’Inter. Tecnica sopraffina, uomo vero, leale, amato da tutti. Uomini veri e bandiere, il calcio di una volta ne è pieno. Oggi lo chiamano esterno basso di difesa, una volta semplicemente terzino. Giacinto Facchetti fu l’apripista di una nuova generazione. Bello e bravo, capitano dell’Inter di Angelo Moratti ed Helenio Herrera, gentile ma in campo un fulmine. Una corsa elegante, la fascia mancina coperta da piedi felpati che sapevano dare del tu al pallone. Lo chiamavano gentleman per la sua signorilità, pulito, elegante negli inter-venti, ma guai a farlo arrabbiare anche se non è mai stato cattivo. Massimo Moratti gli fece ricoprire anche la carica di presidente prima di scomparire nel settembre del 2006. Pochi mesi e quel tumore se lo portò via segnando anche tutto il mondo del calcio.

Maldini e Nesta

Ancora Inter perché i grandi della sua storia, non li ha mai lasciati andar via. Come Sandro Mazzola. Al cuore non si comanda e il figlio del grande Valentino, scelse il nerazzurro: vinse tutto con la grande Inter: 116 gol in 420 partite giocate, quattro scudetti e due coppe dei campioni con l’amarezza che non ha saputo cancellare della stagione 1965/66. In po- chi giorni perse lo scudetto (Inter sconfitta a Mantova da un gol beffardo di Beniamino Di Giacomo che ingannò Giuliano Sarti) e la finale di Coppa Campioni di Lisbona contro il Celtic, dopo il vantaggio firmato proprio da Sandro. Ancora oggi non riesce a darsi pace. Paolo Maldini è stato il Milan, al pari di Franco Baresi dal quale ha raccolto l’eredità. Entrambi hanno vestito solo il rossonero, con Baresi scartato dai cugini dell’Inter prima di dare vita a una escalation di successi. Per Paolo un addio invece al veleno, gli attacchi della curva e la partita d’addio che si trasformò in incubo con moglie, figli e papà Cesare attoniti in tribuna. Messi in un angolo 25 anni di storia e d’amore per la maglia. Ma c’è anche chi ha dovuto ingoiare bile per un addio che non voleva. Come Alessandro Nesta. Dall’84, quando aveva appena otto anni, cominciò ad innamorarsi di quei colori, di quell’aquila portata con orgoglio sul petto. Alessandro era ed è laziale. Vinse tutto nell’epoca Cragnotti, alzò cinque trofei ma all’improvviso dalla sera alla mattina, si ritrovò insieme a Crespo ceduto. Sul finire dell’estate 2002 finì al Milan perchè la Lazio doveva fare cassa. Un libro dei ricordi che Alessandro vorrebbe dimenticare. Perchè è laziale.

Del Piero e Gerrard

Ma la storia racconta di epiloghi amari, come quello di Alessandro Del Piero, juventino vero, che l’Avvocato ribattezzò Pinturicchio definendolo l’erede di Roberto Baggio che per Gianni Agnelli era Raffaello. Scoperto da un sacerdote nel campo parrocchiale di Saccon, che lo suggerì al Padova. Era già troppo bravo e nell’84 approdò alla Juve: 19 anni, per 11 stagioni capitano, la storia di un grande amore, campione del Mondo a Berlino. Lasciò Torino a fine 2012 per emigrare al Sydney e poi in India. Cuore bianconero, capace nel 2006 dopo lo scandalo Calciopoli, di tenere unito il gruppo Juve in serie B. Nessuna riconoscenza, non solo per il campione, ma neppure per l’uomo, per il simbolo della juventinità nel mondo per così tanti anni. Anche Gerrard ha lasciato Anfield Road, il suo Liverpool dopo quasi vent’anni di straordinaria militanza: è lui l’ultimo di una lunga serie di bandiere ammainate. 

Le ultime bandiere

Infine, eccoci ai giorni nostri, la Roma che nel giro di appena un mese, ammaina la bandiera di Daniele De Rossi cui non rinnova il contratto da calciatore, e oggi l’addio alla Roma di Francesco Totti che dopo riflessioni, si è sentito un peso, incapace di incidere per una proprietà che ha in Franco Baldini il suo “decisionista” che ha indotto Checco a chiudere amaramente trent’anni di storia romanista, tra campo e scrivania. Era rimasta l’unica bandiera a sventolare alta, ma era solo una suggestione, perché da tempo Totti aveva capito che non era aria di andare in paradiso. Fatto fuori da tutte le decisioni importanti, ha preferito stavolta non mettere in calce i suo nome sulla nuova Roma. E da signore, ha tolto il disturbo. Peccato, perché le bandiere sono come certi gioielli, per sempre. Ma non è un addio, bensì un arrivederci. Maldini, cacciato in malo modo, oggi, con la nuova proprietà, è tornato a respirare l’aria di casa, Batistuta, che a Firenze, oltre che a Roma, ha scritto la storia, è pronto a far ritorno alla casa madre. Guarda caso con due proprietà appena cambiate. E a Francesco Totti non rimane altro che sperare che anche Roma cambi padrone. Per rientrare dalla porta principale e finalmente poter incidere, da dietro la scrivania, come ha saputo fare da calciatore, e regalare alla sua Roma il futuro che merita.