La bomba della corruzione in Libano

Crisi economica, corruzione, coronavirus e l'esplosione che ha distrutto Beirut. La fotografia del Libano fatta da Alberto Capannini, volontario dell'Operazione Colomba dell'Apg23

L’intera zona del porto ridotta in macerie, quartieri distrutti, macerie sotto le quali ancora si continua a scavare nella speranza di trovare superstiti. Palazzi semi distrutti, centinaia di migliaia di persone che hanno perso tutto: familiari, case e lavoro. E’ ciò che rimane di Beirut, capitale del Libano, dopo la violenta esplosione che si è verificata lo scorso 4 agosto. Eppure, lo scorso 10 agosto, la notte di Beirut è stata rischiarata da fuochi di artificio lanciati dalla popolazione che ha così espresso la sua soddisfazione per le dimissioni del governo.

La corruzione più forte dello Stato

Su un muro di un palazzo di Beirut qualcuno ha scritto: “Un nuovo Libano. Se non c’è giustizia per la gente, allora che non ci sia pace per il governo”. Una frase che mostra la disperazione di un popolo che non ce la fa più, schiacciato tra la voragine della corruzione che attanaglia il Paese costruito su un sistema politico settario e la crisi economica, peggiorata durante la pandemia di coronavirus. Da ottobre, ossia da quando sono iniziate le proteste, la sterlina libanese è scesa ai minimi storici, ossia ha perso il 70 per cento del suo valore.

Situazione che ora, dopo l’esplosione che ha semi distrutto la capitale Beirut, sembra sull’orlo del precipizio. Infatti, il governo del Libano, ritenuto il principale responsabile della crisi che attanaglia il Paese e della tragedia che si è verificata la scorsa settimana, si è dimesso.

Il premier Diab, nel suo discorso alla nazione in cui annunciava le dimissioni, ha spiegato  che il disastro di Beirut “è il risultato di una corruzione endemica”. “Viviamo ancora nell’orrore che ha colpito nel profondo il Libano e i libanesi, risultato di una grave corruzione nell’amministrazione”, ha aggiunto Diab, spiegando che alcune forze politiche abbiano “come unica preoccupazione il regolamento dei conti politici e la distruzione di ciò che resta dello Stato”.

La testimonianza di chi in Libano ha vissuto a fianco degli ultimi

“Chiaramente non è possibile, ma la popolazione chiede di tornare ad essere una colonia francese. Questo per esprimere il loro malcontento”, spiega a Interris.it Alberto Capannini, volontario dell’Operazione Colomba della Comunità Papa Giovanni XXIII che dal 2014 vive in un capo profughi siriano in Libano.

“Il Libano è il Paese che ha il più alto rapporto tra popolazione e migranti accolti – racconta -. Siamo nella zona nord dello Stato, una zona povera. Abbiamo visto che lì la situazione era difficile, abbiamo chiesto di poter vivere in un campo profughi e abbiamo piantato la nostra tenda in mezzo alle loro”.

“In questo Paese nessuno ha firmato la convenzione di Ginevra, quindi nessuno viene riconosciuto come profugo e non ha documenti. Quando escono dai campi profughi vengono arrestati – racconta Alberto -. Noi proviamo ad accompagnarli negli spostamenti, per andare a fare le visite, alcune volte siamo stati arrestati con loro. Abbiamo aperto dei corridoi umanitari con l’Italia, quindi oltre a vivere con loro abbiamo portato più di 2.000 persone nel nostro Paese”.

Un governo che punta a spartirsi la torta

“Il governo in Libano punta a spartirsi la torta. Dall’Europa sono arrivati dei soldi per far in modo che non ci fossero partenze dal Libano. Ma questi soldi non sono arrivati ai libanesi, non sono stati utilizzati per costruire infrastrutture, non ci sono aiuti per i profughi come si possono vedere in Turchia – ha aggiunto -. Il governo di Ankara ha dei gravi problemi di democrazia, però ha costruito interi paesi per i profughi siriani. In Libano si vede solo povertà e corruzione“.

Il Libano, la casa di tutti

“Le difficoltà in Libano non sono di tipo religioso, ma di tipo politico – spiega Alberto -. E’ tutto a pagamento, compresa la sanità. Se uno è povero non può neanche curarsi. E’ tipo il modello statunitense, solo che in America funziona, in Libano no. Paghi, ma non hai un sistema che ti porta alla guarigione”.

“La caratteristica del Libano è quella di essere un po’ la casa di tutti, nonostante le spaccature e divisioni – ha aggiunto -. Le diverse religioni si tollerano, hanno saputo trovare il modo di convivere l’una con l’altra. Questa sarebbe una cosa da salvare“.

La ricostruzione di Beirut

“Dopo l’esplosione Macron ha visitato il Libano, ha detto poche cose ma molto chiare. Ha affermato che neanche un euro finirà nel sistema della corruzione. L’Europa è pronta, per ricostruire Beirut serviranno circa 3 milioni di euro, ma come si fa ad evitare che neanche un euro finisca nelle mani dei corrotti? – ha concluso Alberto – Andrebbe cambiato proprio tutto il sistema, questa divisione settaristica dove ci sono più partiti che libanesi”.

Il problema di Hezbollah

Un altro dei problemi del Libano è la presenza di Hezbollah, che oltre ad essere un partito, viene considerato anche un gruppo terroristico che tiene in scacco il Paese. “Leggevo una giornalista libanese che scriveva: ‘Israele è nostra nemica, ma Hezbollah ha fatto più danni di Israele. Come per la mafia, c’è una parte che non opera nella luce, così per Hezbollah – ha spiegato -. Il governo tedesco e quello inglese, ma anche gli Stati Uniti, hanno dichiarato gli Hezbollah un gruppo terroristico e hanno annunciato che ogni affiliato verrà espulso dai loro territori. Qualcosa si muove ma…”

Un cambiamento è possibile?

Come spiegato da Alberto, il Libano è in crisi da sempre. La situazione è peggiorata nell’ottobre scorso quando la popolazione, esasperata ha iniziato a manifestare in piazza per chiedere le dimissioni del governo e la fine del settarismo. Una situazione di povertà e instabilità che si è aggravata anche a causa della pandemia da coronavirus. “Non sapremo mai quello che è accaduto a Beirut, d’altronde anche in Italia ci sono fatti sui quali, dopo 40 anni, non è stata fatta chiarezza – ha concluso -. Ma se in Libano qualcosa non cambierà si arriverà alla guerra. E’ una zona nevralgica, l’Europa dovrebbe intervenire al più presto, non si può lasciare che un Paese si autodistrugga”.