Casanova (Ispi): “Chi sono i tre candidati alla presidenza di Taiwan”

In occasione delle elezioni generali, l’intervista di Interris.it a Guido Alberto Casanova, Junior Research Fellow presso l'ISPI Asia Centre

Nell'immagine: a destra Foto di xandreasw su Unsplash, a sinistra Guido Alberto Casanova (foto di Ispi)

Mantenere lo status quo. E’ la richiesta dei taiwanesi in vista delle elezioni generali che oggi, sabato 13 dicembre, portano ai seggi quasi venti milioni di persone. Gli elettori voteranno per il rinnovo del parlamento monocamerale e per il successore della presidente uscente Tsai Ing-wen, prima donna a ricoprire questo incarico nell’isola asiatica, il cui nome ufficiale è Repubblica di Cina. Sull’altra sponda dello Stretto di Taiwan, in un crescendo di tensioni, la Repubblica popolare cinese – per cui vale il principio dell’“unica Cina” e che punta a quella che ritiene la “riunificazione” tra le due entità – attende l’esito delle urne e intima agli Stati Uniti di non intervenire nelle elezioni taiwanesi.

I candidati

In lizza per la carica di capo dello Stato del Paese leader mondiale nella produzione di semiconduttori, dopo due mandati consecutivi di Tsai, esponente del Partito democratico progressista (Dpp), il suo vicepresidente e collega di partito William Lai Ching-te, il sindaco di New Taipei Hou Yu-ih, del Partito conservatore (Kuomintang) e il candidato anti-establishment Ko Wen-je, del Partito popolare di Taiwan. Lai, in leggero vantaggio secondo i sondaggi, accusato da Pechino di essere “indipendentista”, intende rafforzare i rapporti con gli Usa e allontanare il Paese dalla Cina. Ha comunque dichiarato che “siamo determinati a tutelare la pace e la stabilità nello Stretto”. Hou, ex capo della polizia nazionale, è a favore di buoni rapporti politici ed economici con la Cina – così come lo è Ko – e ha affermato che “ciò che l’opinione pubblica principale di Taiwan vuole che facciamo è mantenere lo status quo“.

Foto di Liam Read su Unsplash

Pechino

A 150 chilometri dalle coste dell’isola, il Dragone lancia i suoi avvertimenti. Nel discorso di fine anno il presidente cinese Xi Jinping, citato dall’agenzia di stampa statale Xinhua, ha rimarcato che “tutti i cinesi su entrambe le sponde dello Stretto di Taiwan dovrebbero essere legati da un obiettivo comune e condividere la gloria del rinnovamento della nazione cinese“. Più di recente, la portavoce del ministero degli Esteri Mao Ning ha detto, dopo la conferma da parte statunitense, in merito a indiscrezioni di stampa, dell’invio di una delegazione a Taiwan dopo il voto, che gli Usa devono “astenersi dall’intervenire in qualsiasi forma nelle elezioni nella regione di Taiwan, per evitare di causare gravi danni alle relazioni sino-americane“, e ha ribadito che Pechino “si oppone sempre con decisione a ogni forma di scambio ufficiale Usa-Taiwan”.

L’intervista

Interris.it si è fatto spiegare da Guido Alberto Casanova, Junior Research Fellow presso l’ISPI Asia Centre, chi sono i tre concorrenti alle presidenziali e quali scenari si possono aprire dopo il 13 gennaio.

Qual è lo status politico di Taiwan?

“La situazione nello stretto di Taiwan è il frutto della guerra civile cinese congelata e mai davvero conclusa, scoppiata dopo la Seconda guerra mondiale. La vinsero i comunisti di Mao Zedong, che presero la Cina continentale, mentre i nazionalisti di Chiang Kai-shek si ritirarono sull’isola di Taiwan, dove continuarono la Repubblica di Cina. Dopo il 1949 tutto si fermò perché Mao non aveva la forza militare per invadere l’isola e Chiang aveva ottenuto la protezione degli Stati Uniti. Oggi quindi esistono la Repubblica popolare cinese e la Repubblica di Cina, con Pechino che ritiene le istituzioni dell’isola illegittime in quanto ‘resti’ di un governo che considera decaduto. Avvicinandoci ai giorni nostri, dagli anni Ottanta Taiwan ha subìto trasformazioni profonde, attraversando un processo di democratizzazione e di ‘localizzazione’, con i dirigenti di Taipei che man mano sono stati permeati dalla cultura e dall’identità taiwanese. Oggi il 60% della popolazione dell’isola si sente esclusivamente taiwanese, una percentuale che sale al 90% se si conta anche chi si sente in parte taiwanese e in parte cinese. Nonostante abbia oggi un limitato riconoscimento a livello internazionale, a differenza della Cina comunista, Taiwan opera come un Paese autonomo de facto, ma una sua dichiarazione formale di indipendenza sarebbe vista da Pechino come una rottura dell’integrità territoriale e attualmente la maggioranza dei taiwanesi desidera il mantenimento dello status quo, anche se spostando più avanti l’orizzonte temporale la fetta di popolazione favorevole all’indipendenza aumenta”.

Ci può fare un ritratto dei candidati alle presidenziali?

“Nel panorama politico taiwanese il Partito democratico progressista, che potremmo dire rappresenti il centrosinistra, incarna l’anima più nazionalista, perché ritiene Taiwan un Paese a sé stante, diverso dalla Cina. Il suo candidato è William Lai Ching-te. Il Partito conservatore (Kuomintang) riconosce una certa identità cinese di Taiwan e considera necessario mantenere un dialogo non conflittuale con la Cina. Candida Hou Yu-ih. C’è poi Ko Wen-je, il leader del Taiwan People’s Party, ex sindaco della capitale Taipei, che si presenta come il candidato anti-establishment e piace anche ai giovani elettori”.

Quali scenari possono aprirsi in base all’esito del voto?

“In caso di vittoria dei democratico-progressisti si manterrebbe la continuità con l’attuale presidenza e si cercherebbe di rafforzare i rapporti con gli Usa e le altre democrazie, con crescenti tensioni con la Cina. Se vince il Kuomintag si potrebbe profilare una maggiore distensione nelle relazioni con Pechino”.

C’è il rischio di una guerra con la Cina?

“Non mi aspetto l’invasione di Taiwan come esito del risultato elettorale, anche se dovesse vincere il candidato più ostile a Pechino. La Cina è già ‘sopravvissuta’ all’attuale presidenza democratico-progressista, anche se i rapporti sono più tesi e l’atteggiamento cinese è più aggressivo l’invasione sarebbe automatica solo in caso di dichiarazione di indipendenza. La Repubblica popolare sa che un scontro adesso sarebbe controproducente. Secondo le proprie stesse valutazioni non ha raggiunto un livello di preparazione militare sufficiente per sostenere un’operazione del genere e ne subirebbe le ripercussioni sui mercati internazionali. Il principio guida di Pechino è ancora quello della riunificazione pacifica, anche se è un orizzonte sempre più lontano”.

Sullo sfondo di queste elezioni, gli Stati Uniti?

“Da parte loro c’è un tacito impegno a difendere Taiwan, ma non c’è nessun trattato che vincoli Washington a intervenire militarmente sebbene sia probabile che ciò avvenga in caso di invasione cinese. Al tempo stesso, Taipei potrebbe dichiarare l’indipendenza solo se gli Usa garantissero il loro appoggio, una condizione che per ora appare come molto improbabile”.