40 anni fa il primo Papa ad Auschwitz–Birkenau

Auschwitz

Viaggiare, per Giovanni Paolo II, era anche un modo per ricucire strappi, sanare ferite secolari, rileggere pagine storiche e riannodare i fili della memoria collettiva”, spiega Gianfranco Svidercoschi, ex vicedirettore dell'Osservatore Romano, amico personale di Karol Wojtyla e decano dei vaticanisti. Tappe di un pontificato itinerante che girava il mondo camminando su due solide gambe: una pastorale-religiosa e una diplomatico-geopolitica. Dove è Pietro, lì è la Chiesa e così anche la Curia si adeguò al nuovo corso “globetrotter” del governo universale della Chiesa. Per spiegare la sua partecipazione ai viaggi internazionali del Pontefice, mentre in molti volevano che restasse a Roma a gestire gli affari correnti, il cardinale Agostino Casaroli, principale collaboratore di Karol Wojtyla dal 1979 al 1990 coniò un’espressione divenuta proverbiale: “Il segretario di Stato è una specie di meridiana che può indicare l'ora solo se c'è il sole, altrimenti non funziona”. Nonostante le critiche, più o meno velate, rivoltegli anche dall'interno della Chiesa, Casaroli, in assoluta comunione di intenti con Giovanni Paolo II impostò con coerenza una linea diplomatica che si rivelò vincente, avendo avuto un ruolo non secondario nella progressiva disgregazione dei regimi comunisti, fino alla decisiva svolta del 1989.

Il primo Pontefice ad Auschwitz-Birkenau

La visita-pellegrinaggio di Wojtyla ad Auschwitz–Birkenau (7 giugno 1979) fu la prima di un Papa in questo sacrario del dolore. Celebrò l’Eucaristia e pronunciò una commovente omelia che aprì con queste parole: “Luogo costruito sull’odio e sul disprezzo dell’uomo nel nome di un’ideologia folle, luogo costruito sulla crudeltà. Ad esso conduce una porta, ancora oggi esistente, sulla quale è posta una iscrizione: 'Arbeit macht frei', che ha un suono beffardo, perché il suo contenuto era radicalmente contraddetto da quanto avveniva qua dentro”. Dopodiché Karol Wojtyla osservò con forza: “Può ancora meravigliarsi qualcuno che il Papa, nato ed educato in questa terra, il Papa che è venuto alla Sede di San Pietro dalla diocesi sul cui territorio si trova il campo di Auschwitz, abbia iniziato la sua prima Enciclica con le parole Redemptor Hominis e che l’abbia dedicata nell’insieme alla causa dell’uomo, alla dignità dell’uomo, alle minacce contro di lui e infine ai suoi diritti inalienabili che così facilmente possono essere calpestati ed annientati dai suoi simili? Basta rivestire l’uomo di una divisa diversa, armarlo dell’apparato della violenza, basta imporgli l’ideologia nella quale i diritti dell’uomo sono sottomessi alle esigenze del sistema, completamente sottomessi, così da non esistere di fatto?”.

La visita di Ratzinger

Proprio per questo intimo intreccio intellettuale e sentimentale il momento più significativo e toccante del ritorno di Joseph Ratzinger nella temperie che macchiò di dolore e angoscia la sua giovinezza, è stata la sua visita nel 2006 ad Auschwitz. Quel 28 maggio ha oltrepassato a piedi il cancello e ha attraversato il viale principale dell'ex campo di concentramento di Auschwitz, a poca distanza di quello di Birkenau, dove si è recato più tardi. Piovigginava e la sua espressione palesava una mente affollata di pensieri e di ricordi. Ha preceduto di qualche passo la delegazione, seguito tutto il percorso a mani giunte.  La prima tappa è stata nel cortile del Muro della Morte, dove si trovavano ad attenderlo alcuni ex prigionieri. Si è poi si recato in visita nella cella di Massimiliano Kolbe, nel Blocco numero 11. Ricevuto dal direttore del Museo di Auschwitz, dal presidente del Comitato per il Dialogo interreligioso della Conferenza episcopale polacca, dal responsabile ebraico del Comitato, dal Vescovo della diocesi di Bielsko-Bia e dal ministro della Cultura, ha apposto la propria firma sul libro d'oro del Museo.  Arrivato davanti alle lapidi è uscito l’arcobaleno in cielo. Le persone, in silenzio, pregavano e lo osservavano da lontano. A questo punto è iniziato il canto di lutto del Kaddish e l'accensione di un cero, mentre si alzava un po’ di vento, gli occhi di Benedetto XVI erano lucidi. Ha cominciato il suo discorso parlando in italiano, dicendo: “Sono qui come figlio del popolo tedesco, e proprio per questo devo e posso dire, come fece Giovanni Paolo II: non potevo non venire qui“. Ha poi chiesto perdono e riconciliazione e implorato Dio di non permettere più una simile cosa. “Perché, Signore, hai taciuto? Perché hai potuto tollerare tutto questo? Distruggendo il popolo degli ebrei, mandandoli a morte come pecore da macello ed eliminandoli dall'elenco dei popoli della terra, i nazisti volevano “uccidere Dio”. Poi ha aggiunto: “Quei criminali violenti, con l'annientamento di questo popolo, intendevano uccidere quel Dio che chiamò Abramo, che parlando sul Sinai stabilì i criteri dell'umanità che restano validi in eterno”. Il Papa, in un secondo momento, parlerà di quello che ha visto e che ha provato durante questo viaggio struggente e terrà a precisare che tutto ciò non deve provocare in noi i sentimenti più negativi ma ci dimostra anzi quanto sia in ogni caso terribile l'opera dell'odio. Il ricordo delle vittime vuole “portare la ragione a riconoscere il male come male e a rifiutarlo”. Joseph Ratzinger era stato già due volte ad Auschwitz, da cardinale: il 7 giugno del 1979 come arcivescovo di Monaco-Frisinga, tra i vescovi che accompagnavano Giovanni Paolo II e l'anno successivo, con una delegazione dell'episcopato tedesco in visita in Polonia. E ogni volta un colpo al cuore, ferite che ancora sanguinano e un dolore immenso che solo chi ha vissuto in quegli anni e visto quegli orrori da vicino, può comprendere.