Pnrr a rischio: ragionare su come evitare questo autogol

Modesto riassunto a beneficio dei più distratti. Il giorno dopo aver ottenuto la fiducia del Senato con appena 95 voti favorevoli, il premier, Mario Draghi, è salito al Colle dove ha rassegnato le sue dimissioni. Il governo, come prevede la Costituzione, resta in carica per gli affari correnti. Il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, dopo aver visto al Quirinale la presidente del Senato Maria Elisabetta Casellati, e il presidente della Camera, Roberto Fico, ha firmato il decreto di scioglimento delle Camere. Nel corso del Consiglio dei ministri, seguito agli appuntamenti istituzionali, è stato comunicato ai componenti dell’esecutivo la data del voto: il 25 settembre. Ma questo non significa liberi tutti, sino al 24, a Palazzo Chigi, c’è da lavorare. In altro modo, certo, ma sempre di scelte si tratta.

Perché se la caduta del governo Draghi e il voto a settembre hanno aperto una discussione sul “destino” del Piano nazionale di ripresa e resilienza e sui suoi 191,5 miliardi di euro, sul rischio di perderli o meno e su cosa possa rimetterci l’Italia, è altrettanto legittimo ragionare su come evitare questo autogol. Già a maggio l’Europa, parlando del nostro Paese, raccomandava l’attuazione del Piano, rispettando quanto deciso dal Consiglio europeo a luglio del 2021, ovvero il raggiungimento di target e milestone semestrali (complessivamente l’Italia ne ha 527 fino al 31 dicembre 2026), condizione necessaria per ottenere le risorse del semestre successivo. Dunque si tratta di un meccanismo basato sui risultati raggiunti e sul mantenimento o meno degli impegni, e non sul colore politico del governo. Se i governi rispettano il cronoprogramma del proprio Piano non ci sono problemi, se non lo condividono o ne disapprovano le riforme previste o ancora non realizzano gli obiettivi assegnati, si rischia che le risorse non siano erogate. Questa impostazione è prevista dal regolamento europeo che istituisce il Recovery Fund. Vale per l’Italia come per tutti gli altri paesi, non è cioè una “imposizione” dell’Europa, ma il contenuto di quello che noi stessi abbiamo deliberato e concordatoCon Mario Draghi (dalla presentazione del Pnrr a oggi) gli impegni sono stati rispettati e i soldi europei sono già stati versati all’Italia. Il cambio di governo di per sé non pregiudica nulla, il rischio si corre se il nuovo esecutivo cambia linea su misure, riforme e investimenti già approvati o avviati.

Nello sciogliere le Camere, il Presidente Mattarella ha esplicitamente detto che il Pnrr rientra negli “affari correnti” di cui è investito l’esecutivo fino alle elezioni politiche. I principali dossier – di competenza di Parlamento o governo – che riguardano il Piano sono: il disegno di legge annuale per la concorrenza (in approvazione, ma fortemente divisivo tra i partiti); la delega per il riordino degli Irccs, che attende solo il via libera del Senato; i decreti attuativi in materia di giustizia e di processo tributari, da approvare entro dicembre 2022; le modifiche al codice della proprietà industriale; la delega al governo per la riforma fiscale, approvata dalla Camera e in commissione Finanze del Senato.

Nel suo ultimo intervento al Senato, Mario Draghi è stato chiaro: “Tutto questo richiede un governo davvero forte e coeso e un Parlamento che lo accompagni con convinzione, nel reciproco rispetto dei ruoli”. Ora è indubbio che il nostro Paese si troverà fino a ottobre senza governo e senza Parlamento, entrambi determinanti per un’azione amministrava rapida ed efficace. In più, i disegni di legge non approvati decadono con lo sciogliersi delle Camere e con la nuova legislatura si ricomincia tutto da capo. Anche alla luce di queste considerazioni, è difficile immaginare che siano raggiungibili le scadenze previste entro dicembre 2022. Ma il problema principale si pone col nuovo governo, quando cioè l’Italia dovrà dimostrare di riprendere il ritmo della tabella di marcia precedente.

Calendario alla mano, con il voto il 25 settembre e la previsione che il nuovo Parlamento si insedi entro 20 giorni (articolo 61 della Costituzione), prima di novembre non ci sarà un nuovo esecutivo in carica ed è quindi verosimile ipotizzare che ciò renda impossibile rispettare la scadenza del dicembre 2022 come data entro cui raggiungere tutti i 55 obiettivi del secondo semestre dell’anno, sia per la difficoltà di presentare e approvare le leggi e i decreti necessari, sia perché i nuovi ministri e sottosegretari prima di gennaio 2023 difficilmente saranno in grado di guidare rapidamente una macchina così complessa.

Per il Pnrr italiano sono quindi ipotizzabili tre scenari. Il primo: tutto procede senza grandi problemi, con qualche ritardo riferito agli obiettivi in corso, ma senza che nulla cambi nella sostanza generale del Piano; ci si limita al rischio di non essere in linea con gli impegni di dicembre 2022 e si concretizza uno slittamento, superato il quale si rientra nell’andamento concordato. Seconda ipotesi: il nuovo governo vuole negoziare un “nuovo Pnrr”; i tempi si dilatano (formalmente devono esprimersi varie istituzioni nazionali ed europee e tra queste Parlamento, Commissione e Consiglio innescando o meno un precedente); il rischio perdita delle le risorse si alza notevolmente anche considerando che entro dicembre 2026 vi è l’obbligo di rendicontare tutto il Recovery e bene che vada, rispetto al percorso di revisione, potremmo beneficiare solo in parte delle risorse a nostra disposizione. Terzo scenario: contrapposizione tra Italia e Commissione Ue e conseguente rottura del contratto con l’Ue, che potrebbe chiedere indietro le risorse già assegnate all’Italia “per inadempimento”.

È quindi evidente che la linea politica pro-Europa o meno e pro Pnrr o meno determinata dal voto, inciderà non poco sul Piano e sulla sua attuazione, come altrettanto evidente è che le eventuali proposte di “cambiare il Pnrr” rimangono ipotesi teoriche. Forse votare appena dopo il raggiungimento degli obiettivi del dicembre 2022, dopo aver approvato quasi tutte le riforme, sarebbe stata la finestra temporale migliore. Certamente, a settembre votiamo per un nuovo governo, ma probabilmente, senza accorgercene, sceglieremo anche tra il percorso europeo o il suo rifiuto.