“Atlante delle bugie”: guida alla lettura, dalla fonte all’informazione

Francesco Petronella (Ispi) racconta a Interris.it il suo libro, definito "una cassetta degli attrezzi" per il lettore. Uno strumento utile per districare la selva dei contenuti in rete (e non solo)

"Atlante delle bugie"

Essere comunicatori comporta una responsabilità verso il fruitore delle informazioni veicolate. Tuttavia, anche essere lettore richiede, oggi più che mai, una competenza che vada oltre il semplice discernimento. Quella che Francesco Petronella, Digital Journalist and Content Creator per l’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi), nel suo libro “L’atlante delle bugie” (Paesi Edizioni) chiama una “cassetta degli attrezzi”. Strumenti di analisi, approfondimento, conoscenza o di semplice chiarimento, che mettano in evidenza il ruolo delle fonti per restituire all’informazione un ruolo centrale nella vita pubblica. Al di sopra di ogni diffidenza e, soprattutto, degli agglomerati di contenuti proposti dal web. Per “imparare a leggere” in una nuova concezione delle cose.

 

Dottor Petronella, un “atlante” che permetta di orientarsi nella selva dei contenuti odierni è fondamentale. Per l’analista alla ricerca delle fonti ma anche per imparare a essere lettore. Da dove si comincia?
“Innanzitutto occorre distinguere quelle che chiamo fonti primarie da fonti secondarie. Molto spesso, il lettore spesso confonde il mezzo di comunicazione che sta consultando, un sito, piuttosto che un giornale, con quella che è la fonte vera. Tale distinzione permette al lettore di fare una prima valutazione. Occorre distinguere poi tra fonti aperte e coperte. Chi si occupa di informazione vede che le fonti sono definite unicamente come tali. Quando non si sa chi è la fonte in questione, si parla di fonti ‘coperte’, a differenza di quando si tratta di un partito, una istituzione ben delineata. In questi casi, sussiste il concetto di ‘accountability’: il soggetto è responsabile di ciò che dice”.

Qual è il terzo punto?
“Valutare le fonti in base al contesto. In questo libro, ho utilizzato come casi di studio le guerre in Siria e in Ucraina. Ci sono attori coinvolti che non si occupano della guerra solo da un punto di vista bellico ma la raccontano dal loro punto di vista. Ad esempio, è chiaro che le agenzie di Stato russe non chiameranno mai quella in atto dal febbraio 2022 ‘invasione’. Viceversa, quelle ucraine ne parleranno in questi termini”.

Tali distinguo ci permettono di definire la situazione in corso. E questo tipo di approccio diventa essenziale quantomeno per avere un vademecum sull’essere lettore…
“Il punto è proprio questo. A parte gli addetti ai lavori, non tutti i lettori hanno il background necessario per capire dei dossier così complicati. Quindi poi succede che ci troviamo in questi grandi momenti di hype, in cui tutti vogliono informarsi ma si sono persi ‘le puntate precedenti’. Sono quindi vulnerabili alla prima propaganda che passa. Adottando uno dei punti di vista sulla questione”.

C’è la possibilità che si tenda a prediligere una formazione culturale più accurata o, viceversa, è più elevato il rischio di accontentarsi di informazioni “volatili”?
“La tendenza è sicuramente la seconda. Man mano che passa il tempo si predilige l’immediatezza, la velocità, un approccio smart basato sul visuale, piuttosto che sui testi scritti che non bucano la soglia dell’attenzione. Questo non toglie che si possa fare qualcosa di approfondito e di alto livello sui social. Ad esempio, noi dell’Ispi utilizziamo molto i social, in particolare Instagram, che nasce per questo tipo di approccio qui ma che noi utilizziamo per la realizzazione di contenuti qualitativi. Una cosa non esclude l’altra. Mi sento però di dover dire una cosa…”.

Prego…
“Nelle fast news, il rischio che si creino delle forme dolose di propagazione di fake news è sicuramente più alto. Bisogna stare attenti”.

I social, purtroppo o per fortuna, veicola una quantità elevatissima di contenuti. Qual è il setaccio? Come si riconosce ciò che è approfondito da ciò che non lo è?
“Si può andare alla radice, alla fonte primaria. Con un lavoro banalmente di confronto, lo stesso che si farebbe coi mezzi tradizionali, come i siti di informazione o i giornali. Se mi ritrovo di fronte a una notizia sul Medio Oriente, consulterò non solo Al Jazeera ma anche altre fonti. Lo stesso vale per i social, più un veicolo di contenuti piuttosto che un luogo di cui sono nativi. Nei conflitti degli ultimi vent’anni, si è diffusa la figura di colui che, da sotto le bombe, documenta ciò che succede. E purtroppo molto spesso sono le uniche fonti da determinati posti”.

Come sta accadendo nella Striscia di Gaza?
“Esattamente. Lì i giornalisti non possono entrare se non come ‘embedded’. E le informazioni che vengono dall’interno arrivano sostanzialmente da civili che si sono ‘improvvisati’ reporter e che mandano le loro corrispondenze ai servizi di informazione stranieri”.

A proposito, le notizie sono sicuramente di più ma il modo di raccontarle si basa su logiche meno qualitative. L’improvvisazione e l’approssimazione nel mondo dell’informazione hanno forse provocato una disaffezione, da parte del lettore, nei confronti della figura del cronista?
“Sono convinto che sia un circolo vizioso. Quasi un conflitto tra i media e il pubblico, sempre più sfiduciato in ciò che producono i comunicatori. I giornali online devono sforzarsi per avere il clickbait necessario alla sopravvivenza e, in questo modo, cala inevitabilmente la qualità. E questa è la ragione per la quale i media vengono molto spesso criticati. Bisognerebbe spezzare questo meccanismo, facendo ‘ingolosire’ i lettori, cioè proponendo informazione di qualità, facendoli abituare a rendere più ‘ghiotta’ un certo tipo di informazione. Improvvisarsi in questo mestiere, in alcuni scenari di crisi si fa di necessità virtù. Nel nostro contesto è un po’ diverso, anche perché ci sono una serie di valutazioni di tipo deontologico. Basti pensare all’utilizzo delle immagini di violenza: abbiamo la Carta di Treviso, la Carta di Roma, documenti che dovrebbero essere vincolanti per la nostra professione. Eppure, tali immagini vengono esposte senza remore”.

L’informazione resta tuttavia fondamentale. C’è necessità, da parte del giornalista, di reinventarsi adeguandosi ai tempi? Qualche esempio virtuoso sembra esserci…
“Ormai non è più una questione di opportunità ma di necessità vera e propria. Le cose vanno in questa direzione ma bisogna capire come. A regolare il tutto c’è il guadagno. Per esempio, una cosa che in molti fanno, è utilizzare le card su Instagram, pezzi di diapositive da scrollare. Il problema, però, è che non ci sono banner pubblicitari. Anche questo è un meccanismo da cui bisogna uscire. A oggi, tuttavia, il singolo articolo vale meno rispetto a dieci anni fa. Per non parlare del quotidiano cartaceo, la cui funzione è sempre più residuale”.