Quanto ci costa il falso Made in Italy

Dagli “Spagheroni” prodotti in Olanda alla “Salsa Pomarola” venduta in Argentina, dal “Pompeian Oil” negli Stati Uniti alla “Zottarella” realizzata in Germania, fino al “Caccio cavalo” scovato negli scaffali dei supermercati brasiliani. Sono queste le imitazioni più fantasiose spacciate all'estero come prodotti italiani. Il falso “Made in Italy” sta spopolando in tutto il mondo, sottraendo nuovi mercati ai veri prodotti di casa nostra. Questa economia parallela che utilizza denominazioni geografiche, immagini e marchi che evocona l'Italia per promuovere e commercializzare prodotti che non hanno nulla a che fare con il Belpaese, è conosciuta come “Italian sounding“. Il risultato di questa “agropirateria” si traduce in vero e proprio schiaffo all'immagine del nostro Paese, al quale si aggiunge il danno economico. In Terris ne ha parlato con il dottor Lorenzo Bazzana, responsabile economico della Coldiretti

Dottor Bazzana, che cosa è l'Italian sounding?
“Diciamo questa definizione può comprendere molte cose. Può essere semplicemente un prodotto che riporta una bandiera tricolore e quindi occhieggia a quella che può essere una provenienza più o meno reale dall'Italia, può essere un prodotto che ha un nome italiano, può essere il nome di una località geografica, di un monumento, di un personaggio storico, oppure può essere un prodotto che richiama, magari storpiandolo il nome di una denominazione italiana. Ad esempio 'parmesan' o altre traduzioni – più o meno corrette – che vengono fatte di alcune nostre eccellenze agroalimentari. E' un qualcosa di molto diversificato e disparato come tipologia di prodotto, ma nella sostanza è un prodotto che richiama un'italianità che non esiste e per questo si parla di italian sounding”

Quale sono i prodotti italiani più contraffatti?
“Ovviamente quelli che vanno per la maggiore, che hanno un valore aggiunto. Partiamo dai vini per poi continuare con l'olio, i formaggi, i prosciutti, conserve di pomodoro. Sono questi i prodotti che possono essere più facilmente oggetto di agropirateria”. 

Alcune di queste imitazioni richiamano il fenomeno della mafia. Penso al “Fernet mafiosi” o alle “Spezie Palermo mafia shooting” venduti in Germania….
“In questo caso più che di una vera e propria imitazione si potrebbe parlare di una curiosità. Prodotti che richiamino alla mafia o alla criminalità o un certo tipo di fotografia dell'Italia che ha avuto successo all'estero sulla scorta di alcuni film o serie tv, rientra più in questo aspetto che nell'agropirateria vera e propria. Lì l'elemento trascinante è più il richiamo alla criminalità, che la qualità del prodotto”. 

L'agropirateria, oltre a creare un danno d'immagine al nostro Paese, che effetti ha sul mondo del lavoro italiano?
“Il fenomeno toglie spazio al vero Made in Italy, ciò determina non solo un danno d'immagine ma anche economico, legato all'export. Si parla di oltre centomila posti di lavoro che potrebbero essere recuperati nel nostro Paese se ci fosse la possibilità di esportare una maggior quantità di prodotti che ad oggi sono invece oggetto di agropirateria”. 

E in termini economici? Che danno subisce l'Italia?
“Si parla di circa 60 miliardi di euro, ma è una stima fatta per difetto. Basta pensare a tutto quello che ha comunque un'immagine di italianità senza aver nessun tipo di collegamento col Bel Paese, a partire dai prodotti che vengono direttamente commercializzati. Ma anche i ristoranti che propongono piatti spacciati per italiani senza esserlo realmente”. 

Quali politiche potrebbe mettere in campo il governo italiano per arginare questo fenomeno?
“Per combattere l'agropirateria esistono diversi strumenti, come gli accordi bilaterali, ma sarebbe opportuno che queste politiche fossero maggiormente rispettose del made in italy. Faccio un esempio, recentemente è stato ratificato dall'Unione Europea l'accordo Ceta con il Canada che in teoria dovrebbe tutelare i nostri prodotti e le nostre denominazioni. L'accordo, tuttavia, crea una voragine. Questo perché vengono riconosciuti solo alcuni prodotti italiani, la maggior parte del nord e pochissimi del centro e del sud. In secondo luogo viene concesso al Canada continuare ad utilizzare alcune nomenclature italiane nell'ottica di un'errata mutualità. Come dire: 'tu riconosci i miei prodotti, io faccio finta che i tuoi non vadano a danneggiare i miei'. Questo a nostro modo di vedere è un'assoluta ipocrisia. Quello che consente di continuare ad utilizzare nomi italiani non l'accordo auspicavamo. In questo modo viene immolato sull'altare dell'intesa a ogni costo un tema che aveva bisogno di essere trattato in maniera diversa. Se non c'erano le condizioni per poterlo chiudere con soddisfazione, forse sarebbe stato meglio non iniziare le trattative”.