In Congo lo stupro come strategia di guerra. Donne dimenticate dal mondo

Gettata a terra con le gambe spezzate, stuprata, trattata come un animale. E poi ripudiata dalla famiglia, perché in quell’angolo di mondo la verginità è tutto, è la base stessa dello sviluppo di una società. Che infatti sta morendo, devastata non dalle bombe ma dall’attacco al cuore stesso della sua storia: la maternità. E’ la storia di migliaia di donne in Congo, in un’Africa dimenticata dal grande circuito dell’informazione internazionale che le dedica un po’ di spazio quando escono i rapporti internazionali sulle violenze. Qualche riga, nel migliore dei casi un articolo, ma poi i riflettori si spengono subito. Il Congo non è nell’agenda dei mass media, le atrocità che si compiono sono cose che non ci riguardano…

[cml_media_alt id='3016']Mbiye Diku[/cml_media_alt]
Mbiye Diku, presidente di Tam Tam d’Afrique

“Ancora oggi purtroppo – racconta Mbiye Diku, presidente di Tam Tam d’Afrique, associazione di donne d’origine congolese, nonché dirigente medico, specialista in Ginecologia e Ostetricia dell’Inmp (Ist. Nazionale per la promozione della salute delle popolazioni Migranti e per il contrasto delle malattie della povertà, un istituto del ministero della Salute) – si pensa agli orrori del Congo come a una storia isolata, che interessa una parte dell’Africa, una storia che non tocca l’Europa o l’America. Ma è una visione miope. I figli dello stupro etnico sono ragazzi soli, senza famiglia, con un carico d’odio che trovano in dote alla nascita. E che troveranno il modo di sfogare al di fuori del Congo”. Uno schiaffo alla comunità internazionale e a chi si occupa di comunicazione.

La violenza sessuale è sistematicamente utilizzata dagli anni ’90, quando iniziarono le guerre intestine tra l’esercito governativo e i gruppi di ribelli sostenuti da Rwanda, Burundi e Uganda per il controllo dei giacimenti minerari. A farne le spese sono i civili, in particolar modo le donne. “L’attacco alla madre è un attacco all’essenza stessa del nostro popolo – spiega ancora la dottoressa Diku – La nostra cultura basa tutto sulla mamma, che in questo caso viene depredata del suo ruolo in quanto una volta violentate le ragazze non possono più trovare posto nella società. Ecco che la violenza sistematica porta a un impoverimento etnico, con conseguente indebolimento della capacità di contrapporsi a chi vuole comandare. Per schiacciare le resistenze si arriva a costringere i padri a violentare le figlie, i figli a stuprare le madri, annichilendo l’essenza stessa dell’essere umano”. E in tante infatti dopo esperienza così cercano la morte. “Queste violenze – ha confermato Solange Nyamulisa, direttrice dell’Ong International Action Aid – sono una vera e propria strategia di guerra”.

E’ un dramma che passa tra l’indifferenza del mondo occidentale, impegnato su altri teatri bellici considerati più importanti sotto il profilo economico, sia dei rapporti commerciali sia dell’eventuale ricostruzione post-bellica. A marzo, il Fondo delle Nazioni Unite per la popolazione (UNFPA), ha reso note le statistiche sulle violenze sessuali perpetrate in Ituri – provincia del nord-est della Repubblica Democratica del Congo – nell’anno 2013: l’indagine ha rivelato che sono stati registrati 2447 casi. E se per “registrati” si intende denunciati da vittime a qualche associazione umanitaria per chiedere aiuto, significa che il numero reale potrebbe essere almeno il doppio.

Alla strategia si affiancano credenze ataviche. Ogni giorno bambine piccolissime, perché stuprare una vergine “rende immortali”; donne incinte, sventrate o sotterrate vive “per rendere la terra più fertile”, e signore anche sopra gli ottant’anni d’età, perché secondo le credenze tribali forzare una donna anziana porta ricchezza.

A Bukavu, nella parte orientale del Congo, c’è l’ospedale Panzi del dottor Denis Mukwege. Panzi era nato come reparto di “maternità”, ma col tempo è diventato il rifugio di tutte quelle donne che, con le violenze, la propria maternità l’hanno persa. “Devo proteggermi – spiega il dottor Denis Mukwege – Ho imparato a essere insensibile per poter curare pazienti che perdono urina e materia fecale dopo che lo stupro di gruppo le ha lacerate. Donne torturate con bastoni, coltelli, baionette esplose dentro ai loro corpi rimasti senza vagina, vescica, retto. Ragazze alle quali devo dire mademoiselle, lei non ha più un apparato genitale, non diventerà mai una donna”.

La violenza infine, non viene percepita come tale. C’è una sorta di impunità non solo giuridica (i tribunali esistenti sono pochi, lontani dei villaggi dove si perpetrano le violenze, male organizzati e a volte collusi) ma culturale. E violentare diventa “normalità”, a volte addirittura trasformata in “dipendenza”, come hanno raccontato alcuni miliziani intervistati da Irin, l’agenzia di stampa di Ocha, l’ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento dell’azione umanitaria . “C’è un solo modo per fermare questo scempio – conclude Diku – : Parlarne”. Non lasciare che l’oblio cada come un mantello funerario sopra le migliaia di vittime innocenti. Non permettere che venga abbattuto il simbolo stesso di un’intera cultura, l’essere mamma. E costringere i governi ad agire, mettendo la parola fine a una vergogna dell’umanità.

Hanno collaborato: Giulia Capozzi e Roberta Tito